1 Maggio 2020
Disuguaglianze tra classi e tra generi, povertà in aumento: combattere la crisi sociale prossima ventura è il duro impegno del movimento dei lavoratori.
di Antonio Vargiu
Ormai ci siamo quasi stufati a ripeterlo ai soliti superficiali giornalisti che continuano a ripetere ogni anno che non si può festeggiare il 1° maggio a causa dei tanti problemi che i lavoratori devono affrontare.
Abbiamo cercato di scriverlo e di ricordarlo: il 1° Maggio è sempre stato un giorno di lotta, che diventava anche un giorno di festa, perché quel giorno era un giorno di sciopero e non si lavorava. Giornata di lotta ieri, oggi e anche domani e che coinvolge tutti i lavoratori senza figli e figliastri: in Italia, in Europa, nel mondo.
Mobilitarsi sarà tanto più necessario quest’anno, il 2020, iniziato in questo modo così traumatico. La preoccupazione è forte: se la crisi finanziaria del 2008 ha portato nel nostro paese sconvolgimenti sociali e politici da cui non ci si è ancora del tutto ripresi, il timore è che questa crisi sia potenzialmente ancora più acuta e socialmente disastrosa.
Un’analisi “ottimistica”: dopo una brusca discesa a fine anno il Prodotto interno lordo tornerà a risalire?
C’è una “corrente ottimistica” tra gli economisti, qualcuno di quelli vicini ad alcuni settori di governo.
Tra questi citiamo Giuseppe Capuano (1), di cui riportiamo, in sintesi, una sua recente analisi:
“ In un precedente articolo apparso su questo giornale circa due mesi fa, sostenni che la crisi economica provocata in questi primi mesi del 2020 dal Covid-19 (causa esogena al sistema economico) come quella della Sars, sarebbe stata molto forte nei primi due trimestri del 2020 ma circoscritta al breve periodo e con tempi di recupero più rapidi (già dai primi mesi del secondo semestre 2020) rispetto alla crisi del 2008-2009 dovuta ai mutui “subprime” o a quella dovuta al crollo delle azioni legate alla new economy del 2000 (cause endogene al sistema economico). Crisi, queste ultime, durate alcuni anni.
L’analisi basata sullo studio delle serie storiche dell’andamento trimestrale del Pil italiano per un periodo compreso tra il 2000 e il 2019 (fonte: Istat) mi portò a concepire la seguente tesi:
“Le crisi economiche prodotte da fattori interni o da cause endogene al sistema economico sono di intensità maggiore, quindi più importanti e più profonde, con una durata di medio-lungo periodo e con un recupero rispetto ai valori pre-crisi più lunghi nel tempo. Inoltre intaccano la stessa struttura produttiva in quanto durano più tempo. Al contrario le crisi economiche provocate da fattori esterni o cause esogene al sistema economico, come quelle dovute a cause epidemiologiche (Sars, Covid-19, etc.) hanno una durata più breve, sono concentrate nel tempo (con caduta del Pil e aumento della disoccupazione molto forti nei primissimi trimestri) ma hanno un recupero più rapido rispetto ai valori pre-crisi”…
In particolare, l’economia e le imprese italiane ed europee, strutturalmente sane e solo temporaneamente “spente”, saranno pronte a reagire utilizzando la grande massa di liquidità messa a loro disposizione in queste settimane a condizione, però, che l’azione delle Istituzioni sia tempestiva e che la liquidità sia erogata velocemente. Su questo punto avrà un ruolo centrale il sistema bancario italiano e europeo (compresa la Bce) che costituirà il braccio operativo dei governi e delle Istituzioni Ue…”.
Uno schema a V dunque, discesa rapida ma risalita altrettanto rapida, o stagnazione più lunga e più socialmente logorante?
Troppo ottimistica l’analisi prima citata: ce lo dicono le recenti Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (29 maggio u.s.).
In quella occasione Visco sottolineava come fosse difficile “prevedere tempi e intensità della ripresa”. “L’incertezza oggi è forte; riguarda non solo l’evoluzione della pandemia ma anche gli effetti sui nostri comportamenti, sulle abitudini di consumo, sulle decisioni di risparmio. Ci si chiede quali nuovi bisogni si affermeranno e quali consuetudini saranno definitivamente superate. E ci si interroga sulle possibili conseguenze, oltre il breve periodo, per l’organizzazione della società e dell’attività produttiva”.
“La profondità della recessione potrebbe essere amplificata da nuove turbolenze sui mercati, dall’accentuarsi delle tendenze protezionistiche emerse nello scorso biennio, dal diffondersi di casi di insolvenza nelle economie in misura tale da innescare crisi sistemiche nel settore finanziario”.
Per quanto riguarda l’occupazione “la recessione avrà significative ripercussioni sul mercato del lavoro. Rispetto ad altri paesi gli effetti sono contenuti in Italia dalla sospensione dei licenziamenti e dall’ampio ricorso alla Cassa integrazione guadagni, che ha finora coinvolto circa sette milioni di lavoratori, quasi la metà dell’occupazione privata alle dipendenze”. “La partecipazione al mercato del lavoro è caduta di quasi 300.000 unità, scoraggiata dal peggioramento delle prospettive economiche e dalle limitazioni alla mobilità e alle attività produttive che persistono in alcuni settori”.
Ma, anche nelle ipotesi più ottimistiche la crisi non lascerà invariati i rapporti sociali: quale sarà la sorte dei lavoratori “in grigio” o “in nero”, ma anche di quelli regolari?
Queste sono in effetti le preoccupazioni più importanti. Le nuove disposizioni riguardanti le riaperture “ai tempi del covid” hanno già, matematicamente, messo fuori gioco non solo una larga parte dei cosiddetti “lavoratori senza contratto”, ma anche lavoratori regolarizzati, operanti però in settori colpiti duramente.
Per fare solo un piccolo esempio, in una citta terziarizzata come Roma la “riduzione dell’utilizzo degli impianti” a partire dai bar/tavola calda o self service per l’effetto combinato delle misure di prevenzione del Covid -meno tavoli a disposizione e più gente che “sta a casa”- sta provocando una diminuzione di almeno il 50% dei posti di lavoro, pari a qualche decina di migliaia di occupati in meno.
Ma gli esempi si possono moltiplicare: basta andare a vedere il turismo -dagli alberghi alle agenzie di viaggio-, lo stesso commercio ecc.
E il lavoro delle donne?
E’ vivo il timore di un passo indietro sociale, che può ben essere rappresentato dal lavoro delle donne, oggi fortemente a rischio.
Ce lo spiega bene Ivana Veronese nel suo intervento sul Il Corriere della Sera online (2): “ C’è chi spera che questa reclusione forzata di tutta la famiglia porterà a una più equilibrata condivisione dei compiti nella gestione familiare, chi si augura che la sperimentazione massiccia del lavoro da remoto (che non è smartworking quanto, piuttosto, telelavoro spinto) possa dimostrare quanto sia possibile e auspicabile permettere ai dipendenti di lavorare in smartworking qualche giorno a settimana, dando loro (a tutti: uomini e donne) la possibilità di conciliare meglio i tempi del lavoro con quelli della vita privata.
Tutto è possibile, ma il desiderio di essere ottimisti non ci può far arrivare impreparati all’eventualità che, invece, la situazione evolva nel senso esattamente opposto: un peggioramento dei diritti e delle condizioni di vita e di lavoro delle donne. Del resto, veniamo da una situazione, prima della comparsa del COVID-19, che non era certo confortante in questo senso: una donna occupata su due (una su tre al Sud), spesso con contratti precari e part-time che non permettono una reale autonomia economica, un elevato differenziale di genere nei salari, un profondo disequilibrio nella suddivisione dei lavori di cura nelle famiglie e poi carenza di posti nei nidi e rette troppo alte, orari di scuole e servizi per l’infanzia sempre più corti di quelli di una normale giornata di lavoro e la lista sarebbe ancora lunga.
Allora no, non siamo tranquilli. Siamo, invece, estremamente preoccupati.
E preoccupate. Il rischio è che le donne assumano sulle loro spalle il carico della gestione dei figli, della casa, del proprio lavoro quando ancora c’è, pagando un costo elevato in termini di stress e, purtroppo, lasciando spesso per strada il proprio posto di lavoro. Sì, le donne. Perché, come tutti coloro che credono e lavorano per il rafforzamento di una genitorialità condivisa, vogliamo usare la parola “genitori”, parlando di questa situazione di difficoltà, ma sappiamo per prime che, nel concreto delle scelte della stragrande maggioranza delle famiglie, è delle mamme che stiamo parlando”.
E’ il tempo di Keynes e della sua “scuola italiana”: Caffè, Leon ecc.
A conclusione di questo articolo non vogliamo dare ricette “miracolistiche” o “di piccolo cabotaggio” sul come uscire da questa crisi mai vista né mai così vissuta dalle ultime generazioni, né dal punto di vista economico/finanziario, né da quello sociale.
Suggeriamo, perciò, alcune buone letture, ripartendo da Keynes, grande economista ma anche uomo dotato di molto buon senso.
Ci facciamo guidare da Antonio Calabrò che scrive sull’Huffington Post(3):
”Rileggere Keynes, in questi giorni difficili di crisi, contagi da virus, fragilità, paura, radicali cambiamenti del nostro modo di vivere e lavorare, di dati allarmanti sulla recessione…e di voci che parlano di “quaresima del capitalismo”.
Rileggere Keynes, come un ritorno ai “classici” del Novecento…per andare alla radice delle buone idee politiche, economiche e morali che hanno guidato una delle più brillanti ed equilibrate stagioni di crescita economica e sociale, nel nostro Novecento occidentale…
Tornare oggi a riflettere su Keynes significa, appunto, ragionare sulle varie forme possibili di quell’equilibrio tra pubblico e privato.
La pandemia da coronavirus, con la progressione drammatica del numero dei contagiati e dei morti, ha riportato alla ribalta il tema della salute come bene pubblico, come bene comune, come valore primario della persona, come diritto. E ha reso evidente come le logiche che la riguardino non possano essere legate solo alla relazione stretta tra spesa ed efficienza finanziaria, ma debbano guardare soprattutto a quella tra investimento pubblico e privato ed efficacia di lungo periodo…
Sistema, quello italiano, invidiato, dai più attenti osservatori degli Usa, atterriti da quello che potrebbe provocare una grande espansione dei contagi da virus in un mondo in cui la sanità è legata al sistema assicurativo e profondamente selettiva in base al reddito. Adesso sappiamo che su quella sanità bisogna investire di più. E soprattutto meglio. E che le cosiddette “scienze della vita” che guardano complessivamente alla salute delle persone, come premessa per una sanità efficace, hanno bisogno di tenere insieme prevenzione, cura, ricerca, formazione. L’industria farmaceutica italiana, uno straordinario successo economico sul mercato europeo…si sta confermando un’eccellenza anche in questi momenti frenetici di ricerca del vaccino contro il coronavirus.
I ragionamenti sulla sanità si allargano al valore dei beni comuni, essenziali. L’istruzione. L’ambiente. La sicurezza…
Competitività e inclusione sociale, produttività e solidarietà camminano insieme… E forse è utile, ancora una volta, ricordare le affermazioni di due dei principali protagonisti dell’industria italiana della seconda metà del Novecento, Adriano Olivetti e Leopoldo Pirelli.
Ecco Olivetti, in una delle sue frasi più note, riproposta anche sui social nella ricorrenza dei sessant’anni dalla sua morte: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia… Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”. Responsabilità sociale e civile. Che risuona anche in un giudizio di Leopoldo Pirelli del 1986: “La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera”.
Le indicazioni di Keynes, i valori degli imprenditori chiamano in ballo l’attore che deve garantire le sintonie tra mano pubblica e mercato: chi governa, il mondo della politica. Cui tocca dare indicazioni sulle scelte di fondo, sull’uso del bilancio pubblico, sulle leve fiscali. Quanto l’attuale ceto politico (non solo in Italia), sia all’altezza di questo compito, è dibattito aperto, con opinioni controverse. A Roma, a Bruxelles, negli uffici della Bce a Francoforte…
… Tutto un mondo in movimento. Con esiti incerti. E proprio nelle stagioni dell’incertezza e del passaggio, delle fratture e dei cambiamenti, viene in soccorso un’altra essenziale lezione d’un grande economista italiano, Federico Caffè: “Bisogna riscoprire l’economia degli affetti, non delle regole”, di ciò che tiene insieme le persone e determina lo sviluppo, la partecipazione, la condivisione. Oggi diremmo, lo sviluppo sostenibile. Caffè, maestro di Mario Draghi, era uno dei migliori interpreti di Keynes”.
Paolo Leon, un compagno, un maestro.
Ancora lo rimpiangiamo a quattro anni dalla sua scomparsa (4) e lo rivediamo, lanciato da Riccardo Lombardi, alla tribuna del 40° Congresso del Psi, quello dell’alternativa a sinistra, tenutosi a Roma dal 3 al 7 marzo del 1976.
Lo risentiamo indicare da lì un vero e proprio programma di politiche economiche innovative e aperte alle istanze sociali, sicuramente volto ad anticipare le future crisi che stavano per abbattersi sul nostro paese.
Qui lo vogliamo ricordare con una citazione tratta dalla sua ultima opera dal titolo assai significativo “I poteri ignoranti”.
«Le ragioni economiche per le quali gli Stati e la politica non intervengono direttamemente per aumentare la domanda effettiva dopo il crollo, la depressione e la deflazione, sono certamente di origine sociale e politica. Il meglio che si possa dire è che gli Stati non sono stupidi, ma sono ormai un potere ignorante che agisce sulla base della cultura di chi li governa, e questa è ormai resa ottusa dall’ideologia del libero mercato, che sostiene come qualsiasi intervento pubblico genera più costi che benefici – e questa convinzione accomuna gli imprenditori ai capitalisti, i sostenitori della “terza via” come i partiti conservatori e libertari. Allo stesso tempo, questa ideologia resiste agli urti della crisi, quando i costi superano largamente i benefici, perché la crescente concentrazione della ricchezza per i capitalisti e dei compensi per gli imprenditori giustifica continuamente il diritto dei pochi – e perciò il dovere alla povertà degli altri».
Siamo nel 2016, il nostro paese non aveva ancora recuperato il livello di reddito complessivo ante crisi finanziaria.
Contro la “politica ignorante” senza furbizie o ipocrisie.
Ora, dopo il covid, molte certezze liberistiche sembrano essere duramente scosse dai fatti. Rimane comunque una sensazione di una politica “ignorante” e quasi incapace di guidare, correggere e dare all’economia un equilibrio tra le esigenze sociali e quelle produttive.
Il “ritorno” ad un protagonismo del sindacalismo confederale non può essere certamente fine a sé stesso.
Oggi le organizzazioni sindacali sono chiamate ad impegnarsi per contemperare una ripresa economica “sostenibile”, con l’aiuto anche delle nuove tecnologie, con la necessità di dare lavoro –e non solo assistenza- a centinaia di migliaia di persone che stanno perdendo la certezza di una occupazione, a tempo indeterminato o determinato che sia.
Questo significa non solo farsi protagonisti di giuste rivendicazioni, ma anche assumersi responsabilità e non essere neutrali di fronte ad ogni populismo e ad ogni movimento che faccia dell’“ignoranza” la sua bandiera.
Questo significa anche non indulgere a tatticismi o, peggio, a piccoli calcoli di convenienze, peraltro sempre effimere.
- L’intervento di Giuseppe Capuano, economista e dirigente del Ministero dello sviluppo economico, è stato pubblicato nella rivista elettronica Smart magazine marzo giugno 2020.
- Ivana Veronese, Il lavoro e l’autonomia economica delle donne: una proposta, Il Corriere della Sera.it, “la 27^ora”, 27 aprile 2020.
- Antonio Calabrò, Rileggere Keynes in questi giorni di fragilità e paura, Huffingtonpost.it, 18 marzo 2020.
- 11 giugno 2016.
- Paolo Leon, I poteri ignoranti, Castelvecchi 2016.