Una conversazione con Giorgio Benvenuto, presidente della Fondazione Bruno Buozzi -1^ parte.
Innanzitutto partiamo da un dato: il Paese sta attraversando la sua crisi più lunga, almeno da questo dopoguerra. Recessione e aumento esponenziale della disoccupazione stanno minando la fiducia, non solo delle classi più povere, ma anche della classe media, nelle politiche economiche seguite finora, condizionate pesantemente dall’Unione Europea e dal suo eccesso di “rigorismo” targato Germania.
In tutto questo – e ci sembra una novità di non poco conto- il sindacato non viene considerato un interlocutore. Non è ritenuto credibile, né utile a “dare una mano” a superare questi momenti difficili.
Qual è la tua opinione?
“Il nuovo premier, Renzi, ha sicuramente il merito del coraggio, ma sembra muoversi nell’alveo di un certo “neolaburismo”, molto liberale in politica economica, che non tiene conto dei “corpi intermedi” e meno che mai del sindacato.
La mancanza di un rapporto costruttivo tra il governo e il sindacato non giova né agli uni né agli altri.
Viviamo una situazione economico-sociale complessa, in cui è difficile scorgere soluzioni a portata di mano: se il Governo, pur animato dalla volontà del fare, salta i soggetti intermedi o li criminalizza, commette un grave errore.
Dovrebbe tenere conto, anche dal suo punto di vista, che il sindacato costituisce un ammortizzatore per le tensioni sociali: se lo si spinge su posizioni radicali e all’opposizione, all’esecutivo toccherà trattare con movimenti non organizzati e non “filtrati”. Se i lavoratori stanno male e si indebolisce il sindacato, non per questo si eliminano i problemi, anzi. In più ci si troverà a fare i conti con lo spontaneismo e il ribellismo”.
Il sindacato ha sempre avuto necessità di un interlocutore “politico-istituzionale” in quanto, per tutelare pienamente i lavoratori e gli iscritti, ha bisogno di norme e di interventi economici a sostegno: un esempio concreto gli ammortizzatori sociali.
Come fare per essere ascoltati?
“Per prima cosa il sindacato deve ritrovare le ragioni della sua unità. Non solo quella formale o quella fatta di “patti di non belligeranza”, ma concreta. Renzi certamente può essere criticato per il suo atteggiamento verso i “corpi sociali intermedi”, ma ha una buona scusa se decidesse di parlare ai sindacati e chiedesse: qual è la vostra proposta? A oggi le risposte sarebbero almeno tre!
Per quanto riguarda i contenuti sento troppo spesso, in particolare dalla Cgil, utilizzare la parola “difesa”: dell’”occupazione, dei redditi ecc.”. Battaglie sacrosante, ma bisogna sempre ricordarsi di non costruire Maginot, che poi vengono regolarmente aggirate.
Bisogna, quindi, anche avere proposte alternative, flessibili, convincenti, che vengano radicate ed abbiano il consenso dei lavoratori. Bisogna allargare i consensi nell’opinione pubblica, in modo da coinvolgere, da costringere anche le controparti a tenerne conto. Ad esempio, se la battaglia nel pubblico impiego non è solo una battaglia rispetto ai diritti, alla mancanza di rinnovo dei contratti di lavoro ecc., ma anche una proposta di riorganizzazione dei servizi, che pur tenendo conto delle necessarie economicità, abbia come risultato anche un miglioramento della loro efficienza, ecco che i consensi si ampliano e sicuramente indurranno il governo a dare risposte serie e non evasive alla richieste sindacali”.
Oggi assistiamo, in generale, ad un processo di frammentazione delle nostre controparti imprenditoriali. L’impressione è che ci sia una corsa a ridefinire piccole identità corporative e a ritagliarsi un’ economicità operando essenzialmente sul costo del lavoro.
Nel commercio, in particolare, il fenomeno disgregativo sta assumendo dimensioni importanti. Si veda, ad esempio, l’uscita da Confcommercio di “Federdistribuzione”, che ha messo immediatamente in discussione il vigente ccnl terziario e che ha attaccato anche la bilateralità del “welfare contrattuale”: ad esempio è uscita dal Fondo di assistenza sanitaria integrativa “Est”, spostando arbitrariamente i lavoratori delle aziende aderenti in un fondo assicurativo, ovviamente gestito in maniera del tutto unilaterale.
Siamo alla vigilia di un attacco ai contratti nazionali di lavoro, verso cui questo governo mostra, come minimo, una profonda indifferenza?
“Una premessa: se si ritiene che l’attuale sistema di contrattazione vada “ristrutturato”, bisogna intervenire rapidamente, altrimenti si crea confusione tra i lavoratori.
Ovviamente le responsabilità del fare o del non fare vanno condivise dalle due parti in causa. Comportarsi in maniera diversa , soprattutto dalla parte imprenditoriale, vuole dire abbandonare la contrattazione per tornare a vecchie pratiche discriminatorie.
Per il sindacato il problema è quello di costruire un modello molto più aderente alle mutate condizioni produttive e, in particolare, ai settori, la cui qualità assumerà sempre più importanza: da una parte un’industria totalmente innovativa, dall’altra il terziario.
La nuova struttura produttiva ci parla non più delle famose grandi fabbriche o dell’”operaio-massa”, ma di lavoratori in possesso di professionalità, che si spostano da questo o da quel settore produttivo, di giovani che vogliono un lavoro, ma con tempi ed esperienze professionali più varie, non più scandite dalle otto ore di fabbrica, di operai, impiegati e tecnici, coautori di quel localismo economico che tanta parte ha avuto nella tenuta economica del Paese, di esperienze di cooperazione del tutto nuove ed imprenditoriali (vedi l’agricoltura e il terziario), proprie di una economia matura ed intraprendente, lavoratori quindi indifferenti al populismo di vecchi schemi contrattuali.
Un nuovo sistema contrattuale, ad esempio, non può non andare a modificare il rapporto tra il contratto nazionale di lavoro, che è una conquista tutta italiana ed irrinunciabile, vista la nostra struttura produttiva che vede il prevalere di aziende piccole e medie, e la contrattazione di secondo livello. Quest’ultima, più che integrativa, deve essere “complementare”, nel senso che deve poter utilizzare anche risorse messe a disposizione dal livello nazionale, affinché la contrattazione sia sempre più aderente e rispondente alle esigenze e necessità del livello aziendale”.
Negli anni ’80 la Uil ha lanciato, tra lo scetticismo se non l’ostilità, di altre organizzazioni sindacali, il “sindacato dei cittadini”.
A noi sembra che i motivi che erano alla base di quella proposta, tutelare cioè i lavoratori anche fuori dalle imprese, sia ancora oggi di estrema attualità.
Se pensiamo a fisco e a sanità, crediamo che, soprattutto a livello di territorio (Comuni e Regioni) sia necessario aprire vertenze a tutela di servizi che vanno garantiti a tutti i cittadini, a partire dai meno abbienti.
Come valuti la situazione oggi?
“Per il sindacato c’è un punto importante e critico, nello stesso tempo: soprattutto nei momenti difficili il sindacato non può parlare solo ai suoi iscritti, ma deve rivolgersi alla generalità e ricercare l’unità e la coesione. In questa fase c’è più che mai bisogno di solidarietà, non possiamo accettare una società disarticolata. E dobbiamo preoccuparci del lavoratore come di un cittadino.
Con i Caf e i patronati i sindacati offrono eccellenti servizi, svolgono un importante ruolo di sussidiarietà. Ma non basta. Devono riaffermare la loro rappresentanza, ma devono anche reinventare nuove solidarietà, battere gli assistenzialismi, gli sprechi, gli scandali più cospicui quali quelli dell’evasione fiscale. Si tratta di riaffermare una politica di tutti i redditi.
E’ assolutamente necessario non perdere quel “welfare” pubblico, che è stato una delle conquiste di civiltà portate dalle lotte dei lavoratori nel secolo scorso”.
La leva fiscale è quindi un volano importante per raggiungere questi obiettivi.
“Non c’è dubbio. Il problema è che siamo molto lontani da una sua efficienza ed equità. Facciamo un esempio.
Dal 2000 al 2014 l’Agenzia delle Entrate ha trasmesso 70 milioni di richieste di pagamento per imposte sul reddito e IVA evase, per un totale di 550 miliardi. Il 75% riguarda debiti inferiori ai mille euro: Equitalia ne ha riscosso il 40% dando all’erario 4 miliardi di euro. Il 20% sono cartelle con cifre da mille a diecimila euro: Equitalia ne recupera il 25% per 10 miliardi di euro. Il 5% riguarda crediti superiori ai diecimila euro: Equitalia ne incassa uno su cinque. Se la cifra supera il mezzo milione di euro, la percentuale di recupero scende sotto il 2%, nonostante sia qui il grosso dell’evasione fiscale.
Insomma un sistema, quello di Equitalia, debole con i forti, forte con i deboli”.