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“Mi lascio possedere dal canto delle parole”, così Umberto Fiori (nato a Sarzana nel 1949) sintetizza la sua scrittura poetica in una bella intervista concessa a Marco Belpoliti e pubblicata sulla Stampa il 5 aprile di quest’anno.
L’occasione è stata la pubblicazione di una sua raccolta di 30 anni di poesie (Poesie 1986-2014, Oscar Mondadori).
La sua “carriera” è divisa in due parti: nel 1973 diviene il cantante degli Stormy Six nella fase in cui questo gruppo suona e canta un rock politico e canzoni politiche (di sinistra) fino allo scioglimento del gruppo nel 1983.
Successivamente si dedica all’insegnamento e inizia a pubblicare le sue poesie (Case esce nel 1986).
Prima di citarne alcune, voglio riportare dei brani della sua intervista, dove esprime alcuni importanti concetti.
Alla domanda sul perchè continua a scrivere poesie, nonostante lo scarso riconoscimento sociale di chi le scrive (“… in Italia fare il poeta è come essere amante del baseball in un paese in cui prevale il calcio”) risponde:
“Credo nella funzione della poesia: arrivare alla parola. Come si dice in altro contesto: arrivare alle mani. Chi scrive di scienza sa che la sua parola può essere spiegata con altre parole. La parola poetica non ha altra spiegazione: è assoluta. La società vuole parole che sappiano spiegare, convincere, sedurre. Tuttavia la poesia ci mette di fronte ad esperienze che tutti facciamo”.
Ma chi giudica la parola poetica?
“Fare poesia è rischiare la parola. Non c’è un giudizio obiettivo. Sia il dilettante che il poeta laureato sono sullo stesso piano”.
E il riconoscimento come funziona?
“Non c’è niente di sicuro. Nella poesia c’è qualcuno che parla degli affari suoi, ma la grande lirica è quella che attraverso le vicende personali riesce a fare qualcosa di esemplare”.

Nella sua poesia ci sono immagini di case, muri, cose quotidiane, perchè?

“Per me è un discorso politico, un modo di essere con gli altri…Nei miei versi non c’è la prima persona. Il poeta non si stacca dagli altri”.

Di questo “poeta della quotidianità”, soprattutto urbana, riportiamo alcuni suoi “pezzi”.

 

APPARIZIONE

Alte sopra la tangenziale, chiare,
due case con in mezzo un capannone.
E’ questa l’apparizione,
ma non c’è niente da annunciare.

Eppure solo a vederli
là fermi, diritti davanti al sole,
i muri ti consolano
più di qualsiasi parola.

Cancellate, ringhiere,
scale, colonne, cornicioni:
ha l’aria, tutto, come se qualcuno
dovesse veramente rimanere.

(da Esempi, 1992)

*

CONTATTI

Lo vedi come sono
storto, contratto? Lo vedi questo piede,
quando mi siedo, come lo metto?
E’ tutto per lo sforzo, in tanti anni,
di non urtare le persone. Stretto
contro un sedile, dentro l’autobus pieno,
stare a posto, evitare
coi miei vicini
persino il minimo contatto.

Sulle panchine delle sale d’aspetto
o in treno, in corridoio, era una pena
ogni momento sentire sfiorarsi il buio
del mio ginocchio e del loro.

Ore e ore, giornate intere:
uno di fianco all’altro
stavamo, come i gusti del gelato
nel bar della stazione.

Di vero tra noi, di giusto,
lo spazio di due dita
era rimasto.

(da Tutti, 1998)

*

ECCOMI

Dello sbuffo di polvere che si alza
tra le forsizie e le macchine,
di quest’aria di pioggia, di questi morti
alla televisione,
richiami di cornacchie, sirene
di ambulanze,
nessuno ci assicura.

Del baretto incendiato, dell’abbraccio
di una donna al suo dobermann
all’ombra, qui, del portone
-del loro male, del loro bene-
abbiamo perso la misura.

Facce, bottiglie rotte, rami fioriti:
il mare in cui nuotiamo
precipita
nei nostri occhi senza fondo.

Eppure quando mi chiamano
mi volto ancora –vedi?-
e rispondo.

(da La bella vista, 2002)

*

[Insieme a voi]

Insieme a voi
ho visto il mare brillare, le case correre
sempre più grandi
sotto i carrelli del boeing.

“Che caldo fa oggi”, ho detto
quando era caldo.

Anche per me è stato ottobre,
gennaio. So cos’è un letto,
una stella, un autobus.

Ho riso, ho avuto sete.
La terza ho fatto, la quarta.

Non basta ancora? Quando
mi prenderete?

Potrò essere mai
dalla vostra parte?

(da Voi, 2009)

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