Importante sentenza di Cassazione
“TEMPO DI VESTIZIONE” = TEMPO DI LAVORO:
sicuramente per le addette alla mensa, ma non solo!
di Antonio Vargiu
Non può certo sfuggire l’importanza di una sentenza emanata dalla Corte di Cassazione circa un anno fa (1) su un tema da sempre oggetto di un forte contenzioso tra lavoratori, sostenuti dalle proprie organizzazioni sindacali, e datori di lavoro.
Una sentenza che può essere apprezzata sia per la sua semplicità di linguaggio (caratteristica non sempre presente nelle sentenze) sia per la definizione di alcuni criteri che possono essere applicati anche in settori produttivi non coinvolti direttamente nella vertenza legale.
Anche in questa occasione, però, non possiamo non sottolineare come i tempi della giustizia del lavoro italiana siano piuttosto lenti: tra la sentenza di Corte d’Appello e la sentenza di Cassazione sono passati circa 7 anni!
Per fortuna l’Appello si era pronunciato a favore delle richieste delle lavoratrici, che non hanno dunque dovuto aspettare fino allo scorso anno per il riconoscimento delle proprie domande.
I FATTI
A riprova della “vivacità” dell’oggetto del contendere sta il fatto che il primo grado di giudizio aveva dato ragione al datore di lavoro. Viceversa, la Corte di Appello di Roma (2) aveva riformato la sentenza di primo grado, dando ragione alle lavoratrici.
Di che cosa si tratta: alcune dipendenti di un’azienda che gestisce mense erano state costrette a rivolgersi al magistrato per far riconoscere il tempo utilizzato per indossare il proprio abito come tempo di lavoro effettivo e, quindi, da retribuirsi come il resto dell’orario passato ad operare all’interno dell’azienda.
La Corte d’Appello dà loro ragione e ne spiega i motivi in maniera molto particolareggiata. Ne parliamo successivamente, perchè pienamente ripresi dalla sentenza finale della Cassazione.
Qui ne richiamiamo, però, subito uno:
* non ha alcuna rilevanza il fatto che il contratto nazionale di lavoro applicato non preveda “la computabilità dei tempi di vestizione nell’orario di lavoro”, in quanto la retribuzione del tempo di lavoro rientra tra i diritti soggettivi dei lavoratori e non può essere pregiudicata da nessuna omissione contrattuale.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Elenchiamo, in maniera molto sintetica, i motivi che portano la Cassazione a respingere il ricorso dell’azienda e che si ricollegano anche ad un orientamento della Corte ormai consolidato.
1) A questo proposito ricordiamo la sentenza 2837/2014, nelle cui motivazioni la Suprema Corte ricordò che va “considerato come lavoro effettivo – (ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa) – il tempo utilizzato per mettersi la divisa”, per poi aggiungere che questo deve essere retribuito quando:
- è il datore di lavoro a stabilire luogo e tempo della vestizione;
- indossare la divisa è obbligatorio ai fini dell’espletamento della propria attività lavorativa.
2) “l’assenza per il lavoratore di libertà di scelta rispetto a tempi e luoghi in cui indossare gli indumenti necessari, non permette di ritenere la relativa operazione come relativa agli atti di diligenza meramente preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, imponendo, proprio per la mancanza di discrezionalità, che il tempo necessario per il suo compimento debba essere retribuito (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352; Cass. 16 giugno 2014, n. 13706, nonché, seppure in ambito di pubblico impiego, Cass., S.U., 12 marzo 2013, n. 11828)”;
3) che ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera a) del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, per individuare un orario come di lavoro è necessario e sufficiente che il lavoratore sia a “disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, con definizione sovrapponibile anche a quella della successiva Direttiva 2003/88/CE, art. 2, n. 1;
che, in questa prospettiva, è evidente l’ininfluenza del fatto che il lavoratore sia a propria volta obbligato dalla normativa a indossare certi indumenti, in quanto ciò non esclude la possibile mancanza di una sua discrezionalità nel decidere quando e dove operare la propria vestizione;
che tale mancanza di discrezionalità comporta di per sé che il lavoratore sia, in tali frangenti, a “disposizione del datore di lavoro” ai sensi e per gli effetti della citata disciplina;
3) Nello specifico caso preso in esame la Corte di Cassazione riprende la sentenza dell’Appello di Roma per sottolineare l’ “improponibilità” (e noi aggiungiamo “il ridicolo”) dell’indossare “camice, o cuffie e cappellino per contenere i capelli, nel tragitto verso il lavoro”.
In particolare lo escludono in maniera tassativa le motivazioni di carattere igienico-sanitario, per evitare “la contaminazione con “polvere, agenti atmosferici, sporcizia ed altro, come ragionevolmente si verificherebbe qualora fosse permesso ai dipendenti di indossare gli stessi a casa e per tutto il tragitto sino al luogo di lavoro”.
4) In particolare, quindi, la “eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare non solo dall’esplicita disciplina d’impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”, sicché possono “determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro”(Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352);
ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI
Una sentenza, naturalmente, affronta uno specifico caso, ma, soprattutto quando si arriva in Cassazione, emergono elementi e principi più generali.
Sulla specifica problematica del “tempo di vestizione” dell’abito di lavoro è ormai consolidato che:
- a) l’orario di lavoro è quel tempo in cui il dipendente è “a disposizione dell’azienda e nell’esercizio delle sue attività” ( 1, comma II e lettera A) del decreto legislativo n° 66/2003;
- b) lo spogliatoio va considerato a tutti gli effetti come ambiente di lavoro; conseguentemente il tempo impiegato per cambiarsi va retribuito e compreso nell’orario di lavoro;
- c) per quali lavoratori valgono queste regole? Sicuramente per tutti quelli che per motivi igienico-sanitari non possono vestirsi prima di andare a lavoro, come abbiamo visto nel caso esaminato in questa sentenza;
ma non solo in questo caso perchè – come afferma la Cassazione- va considerata “anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale”;
- d) infine, in tutti i casi in cui un datore di lavoro chiede ai propri dipendenti di indossare una divisa sul luogo di lavoro e di cambiarsi prima di tornare a casa, il tempo di vestizione è assolutamente tempo di lavoro e, conseguentemente, va pagato come tale.
(1) CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 aprile 2018, n. 9417.
(2) CORTE d’Appello di Roma, sentenza n.9007/2012.