di Antonio Vargiu
Sono passati 50 anni dal terremoto che colpì violentemente una vasta area della Sicilia occidentale: Il Belice.
L’incertezza sul numero delle vittime ufficiali ci raccontano dell’impreparazione dello stato e delle autonomie locali, assolutamente non in grado di far muovere tempestivamente la macchina dei soccorsi.
Le prime scosse avvennero il 14 gennaio 1968. Secondo alcune fonti i morti furono 231 e i feriti oltre 600, pochi rispetto ai danni perché molti abitanti avevano trascorso la notte all’aperto dopo alcuni preavvisi nelle ore precedenti. Gli sfollati furono circa 70.000.
I pochi muri ancora rimasti in piedi crollarono completamente in seguito alla “seconda” fortissima scossa avvenuta il 25 gennaio, alle ore 10:56. Dopo questa ultima scossa le autorità proibirono anche l’ingresso nelle rovine dei paesi di Gibellina, Montevago e Salaparuta.
Dicevamo la macchina degli aiuti fu molto lenta: ricordiamoci che allora non disponevamo assolutamente di nessuna Protezione civile.
Per questo molto apprezzata fu la presenza di volontari, accorsi da tutta Italia con i propri “sacchi a pelo”. Volontari giunsero anche da Roma e dagli altri Atenei che gli studenti avevano incominciato ad occupare: era l’inizio dello storico 1968.
Per ricordare questo triste anniversario e, soprattutto, per rinnovare quella solidarietà che, in quell’occasione, fu espressa da tutto il popolo italiano ripubblichiamo una mia poesia, dedicata a tutta la gente di Sicilia.
Sicilia, febbraio 1968 (1).
Lasciatemi scavare tra le macerie
tra il fetore dei cadaveri,
con la nausea che fa rigettare.
Lasciatemi scavare tra le macerie
con tutta la mia rabbia disperata.
La vita riprende a strisciare,
ma il grido della morte
fa scoppiare le tempie.
(1) Come abbiamo visto, le scosse più forti avvennero tra metà e fine gennaio. A febbraio, però, a noi che eravamo rimasti ad occupare le facoltà della Sapienza, giunsero le notizie sulla gravità dell’accaduto direttamente dai compagni che, come volontari, erano accorsi sul posto.