Prima condizione (studi macro). Ci vogliono studi di settore, servizio per servizio, articolati territorialmente almeno a livello regionale, per individuare le «migliori pratiche» (le cosiddette best practices) e stimare il tasso di spreco di ogni territorio, che si può ricavare da un confronto sistematico, in termini di costi e benefici, con il territorio meglio organizzato. Bisogna, in altre parole, continuare il lavoro meritoriamente iniziato dalla Commissione Muraro (Commissione tecnica per la finanza pubblica), insediata nel 2007 da Padoa Schioppa e malauguratamente sciolta da Tremonti nel 2008, dopo poco più di un anno di lavoro. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo il Commissario Cottarelli. Eppure nessuna riduzione degli sprechi è possibile in Italia se non si parte da studi macro ben fatti e da obiettivi di risparmio territoriali.
Seconda condizione (studi micro). Una volta individuate le inefficienze di uno specifico servizio e la loro distribuzione territoriale, occorrono studi molto precisi e dettagliati per passare dalla individuazione dell’entità complessiva degli sprechi alla loro eliminazione in un dato territorio. Quando il governatore Cota mi chiese di dare una mano a razionalizzare la spesa sanitaria in Piemonte, non se ne fece nulla perché lui voleva risultati in pochi mesi, mentre io ritenevo che un piano che non peggiorasse il servizio ai malati richiedesse almeno 2 anni di duro lavoro di un’équipe di decine di medici, infermieri, sociologi, economisti, eccetera. Il governatore della mia regione aveva commesso, a mio parere, il medesimo identico errore di Renzi e di tutti i premier che lo hanno preceduto: quello di sbarcare al governo senza avere né un’analisi, né piani operativi pronti, né la consapevolezza che, se li si intende costruire da zero, bisogna avere la pazienza di aspettare 2-3 anni.
Terza condizione (comando). Una volta capito che un determinato servizio in un dato territorio «spreca», poniamo, 100 milioni di euro, e che per ridurre lo spreco bisogna intervenire in determinati, specifici, punti del sistema di erogazione del servizio, manca ancora una condizione fondamentale, quella che in un libro di qualche anno fa Giulio Tremonti ebbe a chiamare il «comando» nella Pubblica amministrazione. Occorre, in altre parole, che ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono.
Purtroppo nessuna delle tre condizioni precedenti è soddisfatta, per adesso… Di studi analitici se ne conoscono pochissimi, mentre ce ne vorrebbero diverse centinaia. Quanto a ristabilire un minimo di «comando» nella Pubblica amministrazione, ne siamo lontani anni luce. A queste tre difficoltà, ne andrebbe poi aggiunta un’altra, di tipo politico generale, e cioè che una spending review che volesse fare sul serio non potrebbe nascondere tre fatti su cui i governanti, chiunque essi fossero, hanno sempre preferito sorvolare: che il grosso degli sprechi e delle inefficienze nell’erogazione dei servizi ha luogo nel Mezzogiorno;
che spendiamo ogni anno 10 miliardi per false pensioni di invalidità; che almeno un terzo dei «poveri» che usufruiscono di esenzioni varie, dai ticket sanitari alle tasse universitarie, sono finti poveri, che evadono il fisco o autocertificano il falso.
Conclusione?
Nessuno, in Italia, riuscirà mai ad azzerare 100 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione. Sarebbe già molto che un governo riuscisse a eliminarne la metà, diciamo 50 miliardi, ossia un po’ di più di quello che Cottarelli ha ipotizzato per il 2016. Per farlo, però, occorrerebbe che fossero soddisfatte le condizioni che ho ricordato. Finché non lo saranno tutte e tre, dalla più facile (la prima) alla più difficile (la terza), è inutile illudersi. Se 34 miliardi di tagli saranno, scordiamoci i servizi. E se vogliamo salvare i servizi, scordiamoci i 34 miliardi di tagli”.
Fin qui Ricolfi. E’ chiaro che la Uil e gli altri sindacati confederali dovrebbero accettare questa sfida. Questo sarebbe un bel modo per riacquistare una centralità sia a livello istituzionale e politico che tra i lavoratori e l’opinione pubblica. Del resto non si fanno vere riforme senza dare fastidio a nessuno o scontrarsi con interessi consolidati, di grande o piccola bottega.