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La nostra prima impressione è che quest’anno giornali e mass media abbiano dedicato poco spazio e data poca importanza ai temi del lavoro visti da un’ottica prettamente sindacale.

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Questo è il frutto di politiche governative volte a “disintermediare” i rapporti con i cittadini e, quindi, anche con i lavoratori, riducendo al minimo il ruolo delle parti sociali (se non quando non se ne può proprio fare a meno –vedi Acciaierie di Taranto).

A questo si aggiunga la vicinanza di un’importante scadenza elettorale, quella delle elezioni europee,  che ha “fatto premio” su ogni altro argomento.

Temi come il “reddito di cittadinanza” o “quota 100” per le pensioni sono stati trattati come temi essenzialmente politici, che caratterizzavano questa o quell’altra componente del’attuale governo “giallo-verde”, poco rilevando che entrambe le questioni fossero ben dentro la “sfera degli interessi” tutelati dalle organizzazioni sindacali (peraltro sostanzialmente non ascoltate).

Alcune altre tematiche sono, in ogni caso, emerse. Essenzialmente il tema dei “riders”, con le loro problematiche queste sì “novecentesche”: il riconoscimento del loro lavoro come organizzato da un “algoritmo padronale”, e quindi come lavoro dipendente; la lotta per un minimo di tutele, quali un’equa retribuzione, il superamento del “nuovo cottimo”, il diritto alla salute ed al riconoscimento di un trattamento assicurativo contro gli infortuni/incidenti sul lavoro ecc.

Ma anche questo è un tema “carsico”, che ritorna sulle prime pagine dei giornali solo in occasione di sentenze o di iniziative/promesse di governo, finora approdate al nulla assoluto.

Altre questioni ogni tanto si “tingono” di attualità, come la richiesta di liberare le  lavoratrici e i lavoratori del commercio dal lavoro domenicale  e festivo. Ma le iniziative (e le promesse) parlamentari languono, chissà fino a quando.

Sul fronte invece dell’innovazione fa capolino, ogni tanto, la problematica dell’industria 4.0.

L’analisi di Gad Lerner

Tra le poche eccezioni alla generale sottovalutazione dell’importanza della “festa del primo maggio” e del ruolo delle organizzazioni sindacali non possiamo, però, non segnalare La Repubblica, che dedica ben due prime pagine all’argomento.

La prima, il 30 aprile, alla vigilia della giornata del lavoro, vede un “editoriale/articolo” di Gad Lerner (1), che arriva addirittura alla conclusione che non c’è più niente da festeggiare, in quanto “…il lavoro, ogni anno che passa, vale meno”.

Il “pezzo” è tutto dedicato ad una puntuale (anche se parziale) analisi del lavoro oggi in Italia.

A mezzo secolo di distanza dalle lotte operaie -esordice il giornalista- sfociate nell’autunno caldo del 1969, che avviarono un decennio di conquiste sociali e cospicua redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro dipendente, gli sfruttati di oggi vietano a sè stessi perfino la nostalgia; non parliamo della fede in una prossima riscossa proletaria.

Così a furia di sentirsi dire che la lotta di classe è solo un nocivo ferrovecchio del passato, il primo maggio  2019 in Italia rischia di trasformarsi in un anacronismo: la festa del lavoro che non c’è più. Ci sono la fatica e lo stress, ci sono gli orari spezzati, il ritorno del cottimo, le esternalizzazioni di rami d’azienda, i somministrati a termine, il caporalato digitale, il tariffario dei parasubordinati, il welfare aziendale differenziato, le false cooperative multiservizi con gare al massimo ribasso per l’assegnazione di appalti e subappalti.

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Ma è come se fosse andata in frantumi l’idea stessa del LAVORO come tutt’uno, principio ordinatore della società…”.

Più avanti Gad Lerner fa l’elogio dei grandi leader sindacali che hanno rifondato nel dopoguerra il sindacato libero, Bruno Buozzi, Achille Grandi, Giuseppe Di Vittorio, che avevano in comune il fatto di aver vissuto in prima persona la condizione di sfruttati e di essersene sempre ricordati anche quando, successivamente, furono chiamati alla massima guida del sindacato.

L’articolo chiude sottolineando la necessità che la ricostruzione di un nuovo sindacato unitario parta, appunto, da chi è inserito nel contesto delle nuove lotte, dei lavoratori nelle fabbriche o degli immigrati supersfruttati nelle campagne.

La frase finale “nuova unità sindacale cercasi” sembra “tirare la volata” all’articolo del giorno successivo, cioè all’intervista del neo segretario generale della Cgil, Maurizio Landini.

Alcune nostre osservazioni

Intanto il sindacato confederale italiano non è solo Cgil, ma anche Cisl e Uil.

In secondo luogo la produzione italiana di beni e servizi non è fondata solo sul lavoro precario, altrimenti la situazione della nostra economia sarebbe già irrimediabilmente precipitata.

La macchina industriale italiana, benchè produca molto meno di ieri beni finali, è a un livello di eccellenza e questo consente ancora la presenza di lavoro qualificato, che coinvolge anche i servizi alla produzione.

Ricordiamo che quella italiana è un’economia che basa più del 30% del proprio PIL sull’export e, noi aggiungiamo, sull’export di qualità.

Inoltre va assolutamente sottolineato  che la “lunga crisi” ha generato un ulteriore dualismo economico e sociale nel nostro paese.

Non solo, cioè, divaricazioni su base territoriale –nord/sud– ma anche tra produzione e servizi diretti all’esportazione e quelli diretti alla domanda interna, che continua a non crescere.

E’ in questa seconda e più grande realtà, in cui la concorrenza si fa ormai sul mero costo del lavoro, con riduzione costante del valore delle retribuzioni e dei salari e con la violazione delle regole – leggi “contratti pirata”-, che valgono tutte le osservazioni e le analisi fatte da Gad Lerner.

 

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Landini: un solo sindacato per il lavoro.

Il giorno dopo, il primo maggio, la Repubblica “spara” in prima pagina un titolo ad effetto, “Un solo sindacato per il lavoro”: il testo contiene l’intervista di Roberto Mania al segretario generale della Cgil, Maurizio Landini (2).

La prima affermazione del neosegretario è, in effetti, centrata sul tema dell’unità:”Le ragioni storiche, politiche e partitiche che portarono alla divisione tra i sindacati italiani non esistono più. Oggi possiamo avviare un nuovo processo di unità tra Cgil Cisl e Uil”.

Benissimo, un’ottima premessa, soprattutto –come del resto ricorda lo stesso intervistatore- perché proveniente da chi, alla guida dei metalmeccanici della Fiom, si fece protagonista della rottura dell’unità di categoria, non sottoscrivendo diversi contratti nazionali e schierandosi, in solitario, all’opposizione più dura del piano di riorganizzazione della Fiat di Sergio Marchionne.

Subito dopo una precisazione: il nuovo sindacato unitario deve partire “dal basso” ed essere assecondato dai gruppi dirigenti.

Perché proprio adesso? “…Oggi…non ci sono più i partiti, il Pci, la Dc il Psi, che avevano tra le loro ambizioni anche quella di rappresentare il lavoro. Quello è un mondo antico. Cgil Cisl e Uil hanno conquistato una propria autonomia e per questo possono andare oltre l’unità d’azione.

Abbiamo proposte condivise sul fisco, sulla sanità, sulle pensioni, sul Mezzogiorno, sulla contrattazione, sulle politiche per gli investimenti pubblici e per valorizzare il lavoro nella pubblica amministrazione. Possiamo fare un passo in più in direzione di quello che definirei un “umanesimo sociale” nel quale ci sia al centro il lavoro e la solidarietà senza che nessuno di noi abiuri la cultura politica e sindacale da cui proviene”.

Tutto bene dunque? Certamente, ma dentro limiti ben precisi e al di là di sogni utopici, che possono rivelarsi controproducenti.

Innanzitutto il titolo dell’articolo non rispecchia esattamente i contenuti dell’intervista e non poteva essere diversamente: come si potrebbe pensare ad un “sindacato unico” bypassando un necessario lungo periodo di “sindacato unitario”?

Nella storia del sindacato italiano c’è stato un solo caso di forte accelerazione verso la creazione di un vero e proprio “sindacato unico” sia dal punto di vista politico che organizzativo ed è stato rappresentato dalla creazione della “Federazione dei lavoratori metalmeccanici –FLM” negli anni ’70.

In quel caso la spinta potente fu rappresentata dalle lotte di fabbrica –dall’”autunno caldo” in poi- , che videro gli operai superare le vecchie subordinazioni ed affermarsi come centrali sia sui posti di lavoro che fuori.

I successi sia contrattuali che a livello normativo –lo Statuto dei lavoratori- e a livello sociale furono il cemento del nuovo sindacato.

Tutto questo oggi non c’è. Né siamo in presenza di attacchi alla democrazia tali da spingere le organizzazioni sindacali verso esiti analoghi.

Siamo invece nel pieno di una fase che chiamerei di “unità (di azione) competitiva”. Ovviamente non c’entrano più le vecchie radici partitiche, visto che quei partiti non esistono più, né altri tipi di influenze esterne.

C’è invece la cultura sindacale da cui si proviene, le sensibilità e gli approcci che nell’azione di ogni giorno divengono fatti organizzativi.

 

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Ad esempio un sindacato deve rappresentare l’ “universo” dei  lavori di oggi, peraltro sempre più frammentati, come ben possiamo constatare nel grande settore del Terziario. Dobbiamo dare voce a professionalità, che non si riuscirebbe a rappresentare con il semplice metodo del voto a maggioranza, a lavoratori che operano in piccole unità produttive, dove andare a farsi concorrenza sarebbe delittuoso. Dobbiamo dare voce ad approcci partecipativi ecc.

E se questa situazione è sottovalutata a volte anche da chi vive nel sindacato, da fuori non è assolutamente compreso. Da qui ci viene l’eterna domanda: ma perché non fate un solo sindacato? La risposta non può essere che quella di continuare a sviluppare forme di unità d’azione, basate su sempre più solidi contenuti, come del resto veniva sottolineato dallo stesso Maurizio Landini.

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Cgil Cisl e Uil hanno ripreso le iniziative con forte coinvolgimento dei lavoratori, a partire dalla grande manifestazione del 9 febbraio a Roma per correggere le politiche economiche e sociali del governo, dalla lotta per un fisco più equo, dalle proteste di piazza dello scorso 1° giugno contro i tagli alle pensioni ecc.

Non ci resta, quindi, che dare tutti il nostro contributo a queste battaglie, senza inutili ed inconcludenti fughe in avanti.

(1) Gad Lerner, “Chiamalo 1° maggio”, La Repubblica, 30 aprile 2019.

(2) Roberto Mania, “Un solo sindacato per il lavoro”, La Repubblica, 1/5/19.

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