di Antonio Vargiu
Innanzitutto partiamo da un dato scientificamente abbastanza fondato: il clima nel Mediterraneo al tempo dei grandi poeti classici, di cui vi forniremo un piccolo, ma emblematico saggio, era abbastanza simile a quello odierno: terminato un periodo “neo-glaciale”, la temperatura dal 1.000 a.c. in poi si andava gradualmente alzando su tutto il bacino del Mediterraneo.
Sicuramente c’era ancora un forte stacco tra le stagioni: in particolare la fine dell’inverno era un momento decisivo per la vita di tutti, cittadini, agricoltori, pescatori, ma in particolare per le ultime due “categorie”.
Tutto questo lo si percepisce chiaramente nei versi dei poeti. Dentro questo scenario, ecco, quindi, una nostra personale “piccola cavalcata” attraverso i secoli della “classicità”.
Partiamo da
Mimnermo (1)
“Emeis d’, oia te fulla fuei poluanthemos ore
earos, ot’ aips’ auges’ auxetai eeliou…”
Scusateci, ma non ci siamo voluti esimere dal citare i primi due versi in un greco “translitterato” (2): provate a leggerli e anche se non ne comprendete ancora il significato, sicuramente ne potrete comunque apprezzare la loro musicalità e la loro “liquidità”:
“E noi simili ad esse, come le foglie che fa nascere
la stagione dai molti fiori,
e ai raggi del sole rapidamente crescono…”.
Ma lasciamo la parola ad uno dei massimi artisti e poeti del Novecento, Salvatore Quasimodo (3), la cui traduzione delle poesie di lirici greci viene da molti considerata il suo capolavoro:
AL MODO DELLE FOGLIE
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dee ci stanno sempre a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
meglio la morte che la vita.
Come si vede qui la primavera è associata al “fiorire” sia della natura che dell’uomo, ma la stagione è breve ed accanto a sé l’uomo ha due “nere dee”, la vecchiaia e la morte.
Più che gioia per la nuova stagione aleggia, quindi, un “pessimismo esistenziale” (del resto ricordiamoci che la vita media dell’uomo in quel periodo era poco più della metà di quella dell’uomo di oggi).
Ma passiamo ad un altro autore, molto più ottimista o che, comunque, vuole dare assoluta priorità ai sentimenti di rinascita e di gioia di vivere.
Alceo (4)
Già sulle rive dello Xanto ritornano i cavalli,
gli uccelli di palude scendono dal cielo,
dalle cime dei monti
si libera azzurra fredda l’acqua e la vite
fiorisce e la verde canna spunta.
Già nelle valli risuonano
canti di primavera.
Ma è tempo di citare Saffo, la poetessa di Lesbo (5): dai suoi frammenti emerge l’assoluto parallelismo tra la stagione dei fiori e quella dell’amore. L’unico dolore o nostalgia è dato dalla perdita della persona amata.
Saffo
Ora risplendi tra le donne di Lidia
come quando il sole scompare
e la luna dalle dita di rosa vince tutte le stelle.
La sua luce sfiora il mare salato
e i campi screziati di fiori.
Goccia la rugiada gentile,
germogliano rose e teneri cerfogli
e fiorisce il meliloto.
Ti aggiri inquieta, ricordi,
e il desiderio della dolce Attis
ti consuma l’anima lieve…
* * *
Usignolo amabile voce
messaggero di primavera…
Infine, per i poeti che si sono espressi in lingua greca, citiamo, dall’Antologia Palatina,
Leonida di Taranto (6).
Al navigare è già tempo opportuno, ché la rondinella
garrula è di ritorno con Zefiro soave.
Già rifioriscono i prati; e l’onda del mare, che prima
ululava alla sferza d’aspre raffiche, tace.
Tira su l’ancora e sciogli, o marinaio, le funi
e naviga con tutte le vele tese al vento.
Ciò t’ammonisco, io Priapo, il dio guardiano dei porti,
uomo, perché tu salpi ad ogni mercatura.
Torna la primavera e l’ottimismo, soprattutto tra i marinai, che, con la nuova stagione, possono lasciare i porti e riprendere la navigazione e i commerci.
Passiamo ora rapidamente a due grandi poeti latini: Lucrezio e Orazio.
Per Lucrezio utilizziamo la citazione di alcuni versi e l’introduzione di Chiara Maria Abate (7). Citiamo pochi versi, ma il criterio è, come nostro solito, quello di un invito ad una lettura più approfondita.
Lucrezio (8)
“La primavera, stagione della creatività, è da sempre simbolo di nascita e di prosperità. Nel poema di Lucrezio è Venere la personificazione di tanto grande forza vitale.
[…] per tuo mezzo ogni specie vivente si forma, e una volta sbocciatapuò vedere la luce del sole. […].
Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, e libero prende
vigore il soffio del fecondo zefiro, per primi gli uccelli dell’aria
annunziano te, nostra dea, e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale. […]
tu solamente governi la natura delle cose, e nulla senza di te
può sorgere alle divine regioni della luce […] (9).”
Venere, equivalente della dea greca Afrodite, è la dea romana associata all’amore e alla bellezza. È considerata l’antenata del popolo di Roma, in quanto madre di Enea, leggendario fondatore. È il simbolo dell’istinto vitale della riproduzione che assicura la continuità della natura. Venere è la dea dell’amore che rinvigorisce la terra, quell’amore che caratterizza il periodo della primavera, tempo del cielo sereno, dei fiori che sbocciano e del sole che comincia a far sentire il calore dei suoi raggi. In primavera, a seguito dell’appagamento che deriva dal mondo naturale, si ha la piena percezione della piccolezza dell’uomo dinanzi alla forza della natura. Questa stagione incarna quel senso di momentanea e passeggera felicità che si risveglia nell’animo di tutti gli uomini e che non può mai lasciare indifferenti.
Terminiamo la nostra rapida rassegna con Orazio, di cui citiamo l’inizio della settima ode del libro IV. L’ode è uno dei componimenti più noti tra quelli che trattano il tema epicureo della caducità della vita.
Orazio (10)
Sí è dileguata ormai la neve dell’inverno
e l’erba torna a crescere nei prati,
sugli alberi la chioma.
La terra muta nuovamente aspetto,
mentre i fiumi placati
scorrono ancora fra le usuali sponde
e una già delle Grazie,
seguita dalle Ninfe e dalle sue sorelle,
s’azzarda ora a guidare, nuda, le loro danze.
E’ una follia sperare nelle cose mortali,
che durino in eterno.
Questo ci dice l’anno ormai trascorso
e l’ora breve in cui si chiude il giorno
che ci ha dato da vivere anche oggi.
Ora si placa il freddo al soffio dello Zefiro,
a sua volta però la primavera
presto verrà travolta dall’estate,
anch’essa destinata infine a tramontare…
(1) Mimnèrmo (gr. Μίμνερμος, lat. Mimnermus). – Poeta lirico greco della seconda metà del 7º o del principio del 6º sec. a. C.; fu flautista di Colofone o, più probabilmente, di Smirne. Scrisse elegie e giambi, ma fu famoso soprattutto per le elegie; ce ne restano pochi frammenti.
Fu soprattutto poeta dell’amore sensuale; cantò i piaceri della vita con un senso di malinconia per il rimpianto della giovinezza che fugge, per la consapevolezza della caducità di tutte le cose.
(2) traslitterazione] (io traslìttero, ecc.). – Riscrivere un testo facendo uso di un sistema di scrittura diverso da quello originale: traslitterare un testo cirillico, … (dall’Enciclopedia Treccani).
(3) Quasimodo, Lirici greci, Mondadori Editore 1985.
(4) Alceo nacque a Mitilene, nell’isola di Lesbo, attorno al 630 a.C., da una nobile famiglia. Partecipò fin dalla giovinezza alle lotte fra i “tiranni” locali, e si scagliò perfino contro Pittaco, uno dei sette sapienti greci, nonostante il rapporto di amicizia che li legava. Insieme ai fratelli di Alceo, quando questi era ancora troppo giovane per entrare in guerra, Pittaco cacciò il tiranno Melancro. Una volta che Alceo entrò in età per combattere, i due lottarono insieme contro gli Ateniesi per il possesso del promontorio Sigeo. Durante questo conflitto, Alceo dovette poco eroicamente fuggire abbandonare lo scudo. Poi i due compagni cospirarono contro il tiranno Mirsilo, ma la missione non riuscì.
Il poeta quindi fu esiliato mentre Pittaco, dopo la morte di Mirsilo, divenne aisumnétes (arbitro) con pieni poteri e di proposito si dimenticò dell’amico. Alceo forse poté ritornare prima della morte, avvenuta presumibilmente attorno al 560 a.C.
(5) Saffo (gr. Σαπϕώ). – Poetessa greca di Lesbo (fine sec. 7° – prima metà sec. 6° a. C.). Nacque ad Ereso, ma visse nella principale città di Lesbo, Mitilene. Era di famiglia nobile e secondo una notizia antica fu, tra il 607 e il 590, in esilio in Sicilia, forse perché in contrasto con la stirpe dei Cleanattidi, dominante in Mitilene. Fu amica di Alceo, che l’ammirò molto; ebbe una figlia, Cleide, e tre fratelli, Larico, Carasso ed Eurigio, dei quali parla nelle sue poesie. La sua vita trascorse, dedicata esclusivamente alla poesia, in un tiaso dove, attorno a S., si raccoglievano le fanciulle di Lesbo e straniere che esercitavano la poesia, la musica e la danza.
(6) Leonida visse a Taranto fino al 272–270 a.C., fino a quando non fu conquistata dai romani.
Quando la città stava per cedere, Leonida fu tra i pochi abitanti a fuggire: un gesto che inizialmente egli interpretò come una benedizione, avendo evitato la schiavitù, ma che presto si rivelò un’amara illusione, giacché da allora e fino alla morte, visse lontano dalla patria, alla ricerca di protettori. Dopo varie peregrinazioni (viaggiò per la Grecia, l’Asia Minore e il sud Italia) si rifugiò ad Alessandria d’Egitto, dove morì intorno al 260 a.C.
(7) Chiara Maria Abate, da ilsuperuovo.it, 20 Marzo 2019.
(8) Lucrezio. Secondo lo storico Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio: nacque in Campania nel 94 a.C. circa, a Pompei o nella vicina Ercolano. Studiò l’epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro della “filosofia del giardino”, diretta dal filosofo greco Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta “villa dei papiri“).
In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato Roma prima del 54 a.C. e non sarebbe morto suicida in quell’anno, ma avrebbe viaggiato in Grecia, ad Atene, nei luoghi del maestro Epicuro, e oltre.
Tornato a Roma, sarebbe morto intorno o dopo il 50 a.C.
(9) da “DE RERUM NATURA” di Tito Lucrezio Caro (96-53 a.C.) Libro I.
(10) Orazio nacque l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana fondata in posizione strategica tra Apulia e Lucania, allora in territorio Dauno e attualmente in Basilicata. Fu figlio di un fattore liberto che si trasferì poi a Roma per fare l’esattore delle aste pubbliche, compito poco stimato, ma redditizio.
Orazio seguì un regolare corso di studi a Roma, sotto l’insegnamento del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all’età di circa vent’anni, dove studiò greco e filosofia presso Cratippo di Pergamo. Qui entrò in contatto con la lezione epicurea…Sarà all’interno dell’ambiente romano che Orazio aderirà alla corrente, la quale gli permise di trovare un rifugio nell’otium contemplativo.
Dopo la morte di Cesare, quando scoppiò la guerra civile, Orazio si arruolò nell’esercito di Bruto, nel quale il poeta incarnò il proprio ideale di libertà in antitesi alla tirannide imperante. Combatté come tribuno militare [1] nell’esercito repubblicano comandato da Bruto nella battaglia di Filippi (42 a.C.), vinta da Ottaviano. In questa battaglia Bruto e Cassio perirono, mentre Orazio si diede alla fuga dopo il secondo combattimento come confessa egli stesso in una delle sue odi.
Nel 41 a.C. tornò in Italia grazie ad un’amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere paterno, si mantenne divenendo segretario di un questore: in questo periodo cominciò a scrivere versi, che cominciarono a dargli una certa notorietà.
Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario, probabilmente incontrati nel contesto delle scuole epicuree di Sirone, presso Napoli ed Ercolano.
Con la sua poesia Orazio sostenne la figura e la politica dell’imperatore Augusto, che peraltro in questo periodo lasciava una grande libertà compositiva ai suoi poeti. Orazio morì nel novembre dell’8 a.C. all’età di 57 anni e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate, morto solo due mesi prima.