Print Friendly, PDF & Email

Siamo dunque arrivati all’oggi. Sicuramente siamo tutti in grado di constatare che la concertazione, cioè il metodo consistente nel definire grandi accordi tra governo e parti sociali per affrontare momenti di gravi crisi che il paese attraversa, è morta e sepolta. Con essa, checche’ se ne dica, anche un’impostazione tendente a non far ricadere tutti i costi della “risalita” sulla parte più debole ed esposta, cioè i disoccupati, i lavoratori e i pensionati.
In sintesi potremo dire che le cause di questa fine sono sia di tipo oggettivo che di tipo soggettivo: da una parte i cambiamenti che negli ultimi anni hanno coinvolto tutti gli “attori” del possibile “patto”, dall’altra le scelte, più o meno conseguenti, che gli stessi hanno operato.
1. I “nuovi governi” ripudiano il metodo concertativo.
Iniziamo dal governo, la parte attiva di ogni possibile accordo “trilaterale”. Abbiamo visto come, dai primi anni ’90, le istituzioni politiche abbiano cominciato a vivere una profonda trasformazione, a partire dal cambiamento del sistema elettorale, passato dal proporzionale al maggioritario.
Nonostante questo, l’affermarsi del bipolarismo e non del bipartitismo, ritenuto allora (ma con buone ragioni anche oggi), inadatto alla realtà sociale italiana, ha lasciato spazio a mediazioni politiche e sociali. L’obiettivo dare rappresentanza alle spinte nascenti nella “società civile”.
Recentemente lo scenario sembra essere notevolmente cambiato. Partiamo dal governo Monti (16/11/2011 – 27/04/2013) : “governo presidenziale” è stato definito, con buone ragioni. Governo d’emergenza, nato per affrontare il momento più acuto della “crisi dello spread”, Monti era e si è comportato da “tecnocrate”, da professore che aveva già in tasca la formula per uscire dalla crisi, senza badare a chi ne avrebbe pagato le conseguenze più pesanti. “Forte” di questa impostazione, ha fatto a meno, in maniera programmatica, del rapporto con le forze sociali, giungendo ad affermare: “Esercizi profondi di concertazione in passato” con le parti sociali “hanno generato i mali contro cui noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro”.
A paragone andiamo a vedere quale fu l’atteggiamento del presidente Ciampi nei primi anni ’90, artefice del “patto del luglio ’93”, non certo meno “esperto” in materia di economia, visto che veniva dalla responsabilità della Banca d’Italia, e chiamato ad affrontare una crisi certamente altrettanto pesante.
Il governo Monti, i cui provvedimenti venivano approvati in Parlamento da maggioranze quasi plebiscitarie e senza modifiche, ci fa porre la seguente domanda: si può ancora parlare di democrazia in tempi di gravi crisi o è un “lusso” di cui fare a meno nei momenti difficili?
Siamo poi passati, dopo il breve intermezzo di Letta, a Renzi. Oltre a voler cambiare l’Italia, cosa non nuova visto che anche Berlusconi era andato al governo con lo slogan del cambiamento, riteniamo che il nuovo presidente del consiglio si sia posto due obiettivi:
a) passare dal bipolarismo al bipartitismo, con un sistema elettorale che permetta un controllo ferreo sulla propria maggioranza (a fronte del quale i tentativi berlusconiani impallidiscono), ovviamente “relativa”, ma supportata da un forte meccanismo premiante;
b) saltare ogni mediazione, non solo politica, ma anche sociale; il suo pensiero sulla concertazione lo ha, sostanzialmente, espresso il suo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti: “La concertazione di Renzi credo che non esista. E’ nostra intenzione confrontarci e dialogare, ma alla fine il governo decide, si prende le sue responsabilità e i cittadini lo giudicano per quello che fa”.
Crediamo che sia sbagliato pensare che siamo di fronte ad un semplice scontro di personalità tra Renzi, Camusso o Landini, tra il governo e la Cgil.
Nel leader politico c’è la convinzione che il consenso adesso vada acquisito direttamente. I sindacati sono fuori non solo dalle scelte generali relative al fisco, ma nemmeno coinvolti nella scelta di inserire in busta paga -sempre utilizzando la leva fiscale- gli ormai famosi “80 euro”, cui nessun sindacalista sano di mente avrebbe potuto opporre una qualche obiezione.
Non è escluso, quindi, che il governo continui a preparare quelle che, in altri tempi, avremmo tutti considerato come “invasioni di campo” (salario minimo fissato per legge?).
In sostanza sembra che, per questo governo, i sindacati, in quanto associazioni di lavoratori che si fanno carico di una prima mediazione sociale, siano un ostacolo ad un rapporto diretto con i cittadini, considerati soggetti sostanzialmente solo nel momento elettorale e poi, dopo aver dato il loro consenso “una tantum”, oggetto delle politiche “illuminate” del “principe” di turno.
Ci sembra che questo schema non sia esattamente all’interno dei principi posti a fondamento della nostra costituzione repubblicana.

Share This: