E’ appunto la preoccupazione il sentimento dominante mentre andiamo ad esaminare questa sentenza con l’aiuto di Luigi Cerchione, avvocato e giuslavorista che collabora con la Uiltucs di Latina per le vertenze di lavoro nei settori di nostra competenza.
Cerchiamo di sintetizzare, traducendola in linguaggio quotidiano, questa sentenza emessa alla fine dello scorso anno (1), che ci sembra mettere in difficoltà chi è impegnato a tutelare il lavoro.
Intanto riassumiamo i fatti: siamo in un resort, Riva del sole spa, in provincia di Grosseto. Il datore di lavoro, pur in presenza di una situazione economica favorevole, decide di sopprimere il posto di “direttore operativo”, senza neppure farsi carico di una sua ricollocazione all’interno dell’azienda.
La vertenza, dopo i due gradi di giudizio, arriva in Cassazione, la cui sezione lavoro emette una sentenza che possiamo così riassumere: non solo si può sopprimere un posto di lavoro, ma –si badi bene- è anche legittimo licenziare il lavoratore senza cercare alternative nella stessa azienda. L’importante, per i giudici, è ottenere una maggiore efficienza dell’azienda o “un incremento di produttività” con un maggior profitto per l’imprenditore.
Attenzione, però, se il licenziamento è stato motivato “per l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste”, allora il licenziamento è ingiustificato “per mancanza di veridicità” e per la “pretestuosità della causale”.
Ma perché mai un imprenditore dovrebbe far riferimento a circostanze straordinarie, se gli basta mostrare una semplice maggiore efficienza dell’azienda o addirittura un maggior guadagno ottenuto dal licenziamento di un lavoratore?
Caro Luigi, non ti sembra che questa sentenza risulti in contrasto con l’art.1 della nostra Costituzione “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”?.
“Sicuramente la pronuncia della Suprema Corte apre un nuovo dibattito su quanto vale il lavoro e di conseguenza lo stesso lavoratore all’interno di una organizzazione aziendale.
La Suprema Corte afferma che una ragione esclusivamente organizzativa è di per sé sufficiente ad integrare le “ragioni” di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966 e dunque legittimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In realtà si può affermare che la giurisprudenza, seppure timidamente, sta iniziando a valorizzare esclusivamente il riassetto organizzativo di una impresa senza tenere in considerazione l’elemento fattuale della crisi economica.
I giudice con una chiara motivazione hanno affermato che “ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare e il giudice accertare, essendo sufficiente dimostrare l’effettività del mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa a meno che il datore di lavoro non abbia motivato il licenziamento richiamando l’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli”.
Dunque per la Suprema Corte non è più necessario che il datore di lavoro motivi il licenziamento richiamando esigenze economiche o situazioni sfavorevoli ma è sufficiente che ponga in essere un effettivo mutamente della sua organizzazione di impresa che comporti la soppressione di quella specifica posizione lavorativa”.
Le stesse motivazioni della sentenza segnalano, peraltro, la presenza di due orientamenti giurisprudenziali, tra loro fortemente divergenti.
Una prima “corrente interpretativa” sottolinea la necessità che il “licenziamento per motivo oggettivo” sia giustificato dalla necessità di fare fronte “a sfavorevoli situazioni” e non sia “meramente strumentale ad un incremento del profitto”.
Questo orientamento viene raccolto dal Tribunale di Firenze, che sottolinea la necessità della dimostrazione, da parte dell’imprenditore, della “sfavorevole situazione economica in cui versa l’azienda”, come “requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che deve essere provato dal datore di lavoro ed accertato dal giudice”, cosa che invece non c’è stata. Da qui la sentenza di condanna dell’azienda.
Secondo un altro orientamento, invece, le ragioni inerenti l’attività produttiva, di cui all’art. 3 della legge 604 del 1966, possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti …”
Altrimenti si affermerebbe il principio, “secondo il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il ‘naturale’ interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività”.
Questo contrasterebbe con quanto sancito dall’art. 41 della Costituzione.
Addirittura la sentenza di Cassazione n.23620 del 2015 arriva a delineare una tesi che, in economia, potremmo classificare come “ultraliberista” quando afferma che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve essere “estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori(sic!)”.
Non ti sembra uno spostamento interpretativo smaccatamente a favore degli imprenditori (qualcuno li ha chiamati “eroici”)? Forse alla base di queste decisioni c’è una visione idilliaca e lontano dalla realtà del mondo del lavoro. Che ne pensi?
“Non credo che i giudici abbiano voluto spostare la propria posizione a favore degli imprenditori, ma sicuramente si sta aprendo la strada per favorire la tesi della libertà di impresa a discapito della tutela del posto di lavoro.
In fondo le pronunce dei giudici non sono altro che lo specchio di quello che è il mondo contemporaneo dove il profitto diventa l’unico elemento che deve perseguire l’imprenditore, senza invece valutare anche tutti gli altri elementi sottesi al mondo del lavoro in particolare la tutela e benessere dei propri dipendenti.
Anche nella tutela e sicurezza sui luoghi di lavoro si sta cercando di inserire il profitto come elemento limite a discapito della salute dei lavoratori coinvolti nel ciclo produttivo.
Peraltro, valutare il profitto come elemento della riorganizzazione aziendale, potrebbe in futuro incidere sulle scelte imprenditoriali e determinare pesanti ripercussioni sulla occupazione del personale.
Ogni impresa ha la legittima possibilità di ricercare il migliore profitto anche organizzando la sua forza lavoro in relazione al mercato ma deve comunque tenere in considerazione che i propri dipendenti non sono semplici numeri e non può considerarli esclusivamente per la produzione in quanto sono parte del patrimonio dell’impresa”.
Come valutare il rinvio operato dalla Cassazione al Tribunale di Firenze, con altra composizione?. Sostanzialmente ci sembra che il compito affidato al rinvio sia quello di accertare la coerenza, come indicato all’inizio dell’articolo, tra le motivazioni date dall’imprenditore nella lettera di licenziamento e la realtà economica effettiva in cui versa la propria azienda.
“Sicuramente bisognerà in futuro fare in conti con il cd “profitto” e non si potranno più tollerare aziende sovradimensionate che non hanno possibilità di essere competitive sul mercato anche se ciò comporterà licenziamenti.
Purtroppo la Cassazione con la richiamata sentenza non ha fatto altro che riprendere quello che l’economia ormai impone ovvero una organizzazione della produzione (anche della forza di lavoro) che sia adeguata al mercato senza più avere società che operano sul mercato in perdita.
Non è più possibile operare sul mercato senza che vi sia un effettivo vantaggio economico e ciò impone anche un ridimensionamento del personale se tutto questo può portare ad un maggiore profitto.
Il problema è capire come la ricerca del profitto deve essere perseguita. Sicuramente non è possibile un vantaggio economico attraverso un incremento dei turni di lavoro o attraverso l’uso sconsiderato del straordinario, peraltro molte volte nemmeno correttamente retribuito.
Infatti ritengo che le organizzazioni sindacali dovranno prestare molta attenzione proprio a quei fenomeni di stress lavorativo e limitare accordi che possano incidere e/o ridurre le cd. maggiorazioni per lavoro straordinario, festivo, domenicale e notturno.
Ad esempio la grande distribuzione richiede da una parte turni di lavoro massacranti (addirittura aperture 24 ore) e dall’altra accordi sindacali che riducono le relative maggiorazioni con conseguente impiego del personale anche per turni di oltre 10 ore giornaliere.
Tutto ciò sicuramente avrà un forte impatto sull’occupazione e non credo possa essere tollerato in nome del vantaggio economico”.
Ma, se basta dimostrare un vantaggio economico per l’azienda con il licenziamento del dipendente (magari “stressando” gli altri che rimangono), ci sembra difficile per il lavoratore riuscire ad evitare il licenziamento.
Infine quali altri spunti di riflessione in tema di diritto del lavoro ci dà la sentenza presa in esame?
“Ritengo che la sopra richiamata sentenza abbia semplicemente posto un problema che in futuro sia gli imprenditori che le organizzazioni sindacali dovranno affrontare ovvero se il vantaggio economico debba per forza essere perseguito con la riduzione della forza lavoro impiegata oppure se la forza lavoro debba essere coerente con il mercato in cui si opera.
Credo che l’interpretazione più corretta di quanto statuito dalla Suprema Corte sia che ogni impresa deve operare con personale adeguato alla domanda o al mercato di riferimento senza che ciò però possa legittimare l’imprenditore ad un incremento delle ore di lavoro dei lavoratori senza corrispondere una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro richiesto.
Io vorrei concludere richiamando l’art. 36 della Cost. “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
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Cassazione Sezione Lavoro, sentenza n.25201 del 7 dicembre 2016.