Questa è la seconda parte dell’articolo dedicato all’incontro, avvenuto il 21 dicembre 2016, tra il poeta e i ragazzi dell’associazione di teatro Studio Novecento, occasione che si è subito trasformata in un dialogo tra lui e il pubblico.
Nel frattempo Franco Loi, nonostante i suoi 88 anni (o forse proprio per questo) continua ad essere un “vulcano” di idee sulla poesia.
Lo ritroviamo, recentemente, su la Lettura del Corriere della Sera (13 maggio 2018) in dialogo con Simone Savogin, “campione” di poetry slam (1).
Poesia è “ascoltarsi dentro”.
Ad una precisa domanda “la poesia è qualcosa che sfugge alla ragione?” la risposta di Loi è immediata: “Sì, non la facciamo con la testa. Tutte le regole sono desunte dagli scritti, ma quello che importa è ascoltare sé stessi e lasciarsi dire le cose. Se non scrivi subito la poesia che ti viene, la perdi. E’ l’inconscio o l’anima”. E poi “la poesia è qualcosa della nostra anima che dice ciò che noi non conosciamo. Ascoltarsi vuol dire: quando io ho rapporti con il mondo, con la natura, con gli altri, che cosa succede dentro di me?”.
Terminiamo ritornando all’incontro con Studio Novecento. A questo proposito vogliamo mettere in evidenza un concetto: per scrivere versi bisogna amare. Non ci sono altre strade, non ci sono scorciatoie: le parole che non hanno dentro la passione dell’uomo per l’uomo sono solamente delle monete false, che risuonano sgradevoli e stonate.
Per scrivere poesie bisogna amare
Citiamo, allora, ancora un altro pezzo dell’incontro di Milano, con il suo ammonimento: “Non crediate che sapendo le regolette si scriva la poesia. C’era un falegname, era lì che segava, con una mano, e intanto parlava con noi. Quando abbiamo smesso di parlare, gli chiedo se posso provare io. Ho preso la sega, non riuscivo neanche a metterla nel legno. Perché? Perché, lui mi diceva, un legno non è sempre lo stesso. In quel caso lì, dovevo mettere la sega non dritta, ma così, quasi piatta. E mi ha detto: «Il mestiere ti fa imparare l’arte». Verissimo. E così è la poesia. Vanno bene le regole, e va bene impararle. Però bisogna anche avere l’esperienza. Amare. E la poesia è così, sei tu che devi trovare le regole.
Dante, quando ad un certo punto uno gli dice: «Ma tu non sei quello girava per le strade di Firenze cantando le sue canzoni?» risponde; «I’ mi son un, – io sono uno a me stesso; mi sono uno – che quando amor mi spira, – quando l’amore mi alita, mi muove – noto, – cioè ascolto, prendo nota – e a quel modo ch’ei ditta dentro, vo’ significando». Vado riempiendo di segni. Perché significato vuol dire segno. Segno di lingua o di costume. Ma un segno, è un segno. Ma ci vuole l’amore, e l’essere uno a se stessi”.
Qui finisce l’articolo in attesa, probabilmente, di scriverne un altro, sempre ricordando e commentando quello che ci comunica, raccontando la sua esperienza, Franco Loi.
Mi fa piacere terminare l’articolo con la citazione di Dante “Io mi son un che quando amor mi spira …(2)”, perchè anch’io, ma senza conoscere questa riflessione di Franco Loi, l’ho ripresa, mettendola all’inizio di una mia poesia.
Anche per me è un programma: di scrittura e di vita. E mi commuove.
(1) Poetry slam è una competizione letteraria in cui i poeti recitano i propri versi, gareggiano tra loro e vengono valutati da una “giuria” di 5 persone, estratte a sorte tra il pubblico.
(2) E io a lui: “I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando”.
Dante Alighieri, Purgatorio Canto XXIV, versi 52-54