di Antonio Vargiu
Questa la sentenza, incredibile e paradossale, del Tribunale di Roma (1). Aggettivi forti, ma adatti a descrivere questa vicenda finita sotto il giudizio di un tribunale del lavoro.
Di cosa stiamo parlando? E’ presto detto: di un giovane apprendista assunto da un’azienda che opera nel settore del trasporto ferroviario.
Questo lavoratore, assunto il 2/10/20 con l’obiettivo di diventare -in 36 mesi- un “operatore specializzato in manutenzione di infrastrutture”, rassegnava le proprie dimissioni con effetto dal 14 marzo 2022 “senza giusta causa o giustificato motivo”.
L’azienda porta allora il lavoratore in tribunale chiedendo, per così dire, il risarcimento per la formazione fino ad allora “somministrata” e non giunta a buon fine.
Un risarcimento oltretutto notevole: 9.838,85 euro per i 125 giorni di formazione impartita “o di quella somma (superiore- ndr) ritenuta di giustizia in corso di causa”.
Non neghiamo che ci è venuta spontanea la domanda: ma esiste ancor la schiavitù della gleba”?
Siccome il giudice, entrando nel merito, parla di quanto “previsto dal ccnl e dal contratto sottoscritto dalle parti”, siamo andati subito a leggere l’apposito capitolo nel ccnl di riferimento, che è quello denominato Mobilità/Area AF rinnovato il 22/3/22 e sottoscritto, oltre che dai sindacati confederali, anche da Ugl, Fast Confsal ed Orsa.
Naturalmente non abbiamo trovato niente sull’obbligo al lavoro triennale. Unico riferimento ad un concetto di durata viene espresso dal comma 2 dell’art.21, dove si afferma che la durata del contratto non può essere inferiore ai 6 mesi né superiore ai tre anni.
Rimane allora il contratto individuale e qui si entra in un terreno estremamente delicato.
Negli ultimi tempi una certa giurisprudenza si è dedicata a magnificare il contratto individuale, come momento in cui si esercitano i diritti soggettivi delle due parti, ipotizzando una irrealistica ed immaginaria “parità di posizione”, negando nella sostanza che nel rapporto di lavoro, e, perdipiù, alla sua costituzione, il lavoratore è il soggetto debole, che per ottenere l’impiego è costretto ad accettare anche vere e proprie imposizioni da parte di chi lo sta per assumere.
Tanto per fare un altro esempio: alcuni giudici hanno sentenziato che lavorare o no nelle festività è un diritto soggettivo del lavoratore, non subordinato quindi a nessun accordo collettivo. Di conseguenza, se per essere assunto, un lavoratore sottoscriverà nell’accordo individuale la disponibilità a lavorare nei giorni festivi, lo dovrà fare per tutto il periodo in cui è alle dipendenze di quel datore di lavoro, perché viene considerata una libera scelta. Ma vogliamo continuare a prenderci in giro?
Torniamo al nostro apprendista.
L’avvocato che ne sosteneva la difesa ha messo al centro del problema la natura “vessatoria (1)” della clausola imposta dal datore di lavoro.
La risposta del Tribunale è stata puramente formale: infatti ha ribadito che le parti sono libere di definire, in via convenzionale anticipata, “le caparre, le clausole penali ed altre simili” con cui determinare “la misura del ristoro economico dovuto all’altra in caso di recesso o inadempimento”.
Ma, dal punto di sostanziale, come si fa a non capire che, soprattutto al momento dell’assunzione, le parti non hanno la stessa forza? Il lavoratore sa che, se rifiuta, non otterrà il posto di lavoro, a prescindere dalle clausole che possano esservi contenute!
Sul merito della formazione il giudice fa un ragionamento all’apparenza logico: io datore di lavoro ti assumo per addestrarti e farti acquisire determinate competenze, per me importanti, e tu, ad un certo punto decidi di andartene. Quindi nel tuo contratto individuale inserisco una clausola, chiamiamola di “rimborso per le spese di formazione”.
Citiamo dalla sentenza:” Ferma la disciplina contrattuale delle condizioni del contratto di apprendistato fissate dal legislatore, nessun limite è posto dall’ordinamento alla autonomia privata relativamente alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore. Si è infatti in presenza di una clausola di durata minima correlata ad un diritto potestativo disponibile per cui il datore di lavoro che lamenti il mancato rispetto del periodo minimo di durata può chiedere al lavoratore il risarcimento del danno. La meritevolezza dell’interesse del datore di lavoro rispetto a siffatta clausola è rinvenibile nel dispendio economico sopportato dalla azienda per la formazione di un proprio dipendente … Peraltro, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito tale patto deve ritenersi legittimo quando da parte dell’imprenditore sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore per poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore”.
Ma che succede se andiamo in fondo a questo ragionamento? In teoria servono tre anni per acquisire la qualifica prevista dal contratto. Ma che succede dopo i tre anni? Semplicemente che ciascuna delle due parti è libera di confermare o meno la continuazione del rapporto di lavoro.
Paradossalmente il lavoratore, acquisita la qualifica, se ne può liberamente andare e, addirittura, passare alla concorrenza, senza che un qualsiasi datore di lavoro possa farci niente! E qui il ragionamento del giudice sul “periodo di tempo minimo” crolla come un castello di carte!
In conclusione: una impostazione giurisprudenziale che tende a mettere sullo stesso piano datore di lavoro e dipendente e che mostra enormi buchi e carenze logiche, che danno vita a vere e proprie abnormità giuridiche (oltre a schiacciare i diritti dei lavoratori).
Per questo auspichiamo che ci sia un ricorso ai livelli superiori di giudizio, per mettere in evidenza queste crepe e queste insufficienze di motivazioni della sentenza che siamo andati a commentare.
1) Sentenza 16087/2023, Tribunale di Roma, Terza sezione lavoro.
2) Le clausole vessatorie sono quelle che, inserite all’interno di un regolamento contrattuale, per il loro contenuto comportano uno squilibrio di diritti e obblighi a danno di una parte e a favore di un’altra.