di Antonio Vargiu
Torniamo a parlare – e ci fa molto piacere- di Carmen Yanez, della sua arte e della sua vita, resa complessa e delicata dal golpe fascista di Pinochet del 1973.
Lo facciamo sia utilizzando alcune interviste fatte da giornalisti italiani sia ripubblicando una “piccola antologia” di sue poesie.
Nell’intervista di Massimo Calandri su La Repubblica (supplemento de Il Venerdì, 6 gennaio 2016)vengono portate alla luce, ancora una volta, le circostanze drammatiche da lei vissute in Cile a partire dal golpe fascista di Pinochet (11 settembre 1973), che l’hanno condizionata e colpita anche nei suoi affetti famigliari.
Carmen, infatti, è la moglie del forse più famoso scrittore Luis Sepulveda e tutti e due ne avranno la loro vita sconvolta. Questa vicenda così la racconta il giornalista: “Basta osservare come si cercano e si sfiorano con le mani, come si parlano e si proteggono con gli sguardi, per capire che è una grande storia d’amore.
La storia della monella, “Pelusa”, e di “Lucho”, il lottatore, quello che non si arrende mai. Carmen “Pelusa” Yanez, poetessa. Luis “Lucho” Sepúlveda, scrittore. Quarant’anni fa, adolescenti innamorati a Santiago del Cile, giovani sposi. Un figlio, la felicità, un mondo a colori. Ma all’improvviso tutto si fa buio, orrore. Separati, sequestrati, torturati dal regime di Pinochet. Il mondo che diventa solo bianco e nero. Nessuno sa più nulla dell’altro, inevitabilmente lei lo crede morto, in qualche modo gli sopravvive. E poi esuli per il mondo, lontani dalla propria terra, ognuno percorrendo la sua strada. Si ritroveranno molti anni più tardi in Europa. E torneranno a sfiorarsi, a guardarsi negli occhi. A sposarsi una seconda volta, protagonisti di una grande storia d’amore…
«Tutta la mia vita è stata una storia di re-incontri –sottolinea Carmen Yanez-. Con Lucho fu un ritrovarsi molto romantico ma anche molto teso. Io andai a vivere in Svezia con i miei due figli: quello avuto da lui, Carlo, e il mio più piccolo, Jorge. Venne a cercarmi, non mi trovò. Mi mandò delle rose rosse. Tornò per incontrare il figlio. Aveva una donna in Germania, voleva sposarla. Era passato troppo tempo, eravamo due persone diverse. Divorziammo, da buoni amici. Dopo qualche tempo, cominciammo a comunicare per telefono. Una chiamata, una seconda e un’altra ancora. Ci sentivamo per parlare di Carlo, ma finiva che si restava a chiacchierare per un’ora e mezzo. Mi mandava tutti i suoi manoscritti, ero la prima a leggerli. Credo lo facesse per impressionarmi. E finalmente nell’89, ci trovammo a Göteborg per un simposio. Fu molto triste. C’erano forse troppe aspettative, in realtà parlammo pochissimo: c’era come un grande vuoto tra di noi. Anche lui era strano, silenzioso. Così, ricominciammo a comunicare per lettera. Lettere bellissime, che custodisco ancora».
Passano altri anni. Una mattina, a casa di Carmen squilla il telefono. «La moglie tedesca. Mi invita in Germania. È sola, mi racconta che Lucho parla solo e sempre di Pelusa. Che ama solo Pelusa. Due giorni dopo arriva lui. E lei si offre di tenermi per una settimana mio figlio Jorge. Così partiamo, io e Luis. Parigi. La città dell’amore».
Ancora più recente è l’intervista di Simona Maggiorelli in occasione di un recital tenuto a Perugia nel maggio 2016 insieme al marito Luis Sepulveda, all’interno del Festival delle letterature in lingua spagnola e pubblicato sulla rivista Left (5 maggio 2016).
La poetessa racconta “…il suo percorso, gli anni duri di resistenza alla violenza di regime e come è riuscita a rinascere con la letteratura”.
«Il periodo di reclusione a Villa Grimaldi fu – e non poteva essere altrimenti – una esperienza unica e dolorosa. Non eravamo detenuti, le donne e gli uomini lì erano sequestrati, senza diritto a nulla. La nostra situazione era di desaparecidos nelle mani del terrorismo di Stato messo in atto dalla dittatura di Pinochet», racconta Carmen Yáñez . «Poi, quelli di noi che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, sono stati liberati non avendo nessun capo di accusa. Molti altri hanno avuto sorte peggiore e sono e ancora oggi restano desaparecidos».
Come siete riusciti a sopravvivere, non solo dal punto di vista fisico, quanto psicologico alla condizione di deprivazione e tortura?
Come siamo sopravvissuti a quell’inferno? Eravamo giovani, la mente viva. Avevamo la convinzione che la nostra lotta fosse giusta, vedevamo che i nostri torturatori erano aguzzini di un sistema politico ed economico che si imponeva con la forza contro un popolo che aveva avuto il coraggio di sfidare il potere. Credevamo nei nostri sogni. E ci crediamo ancora oggi, nonostante il passare degli anni. Quella fu la nostra forza.
Riuscendo poi a non morire poi di rabbia e odio…
In me non c’è odio. Odiare è farsi male da soli. L’odio lo lascio a chi disprezza e odia gli esseri umani, a chi non è capace di amare, a chi non ha empatia verso i più deboli, la parte vulnerabile della società. Non odio, ma anche per un senso di giustizia sono stata sempre dalla parte di chi soffre denunciando. Si vive anche per questo, perché ci sono ferite aperte da sanare. Il mio linguaggio poetico è proprio questo, uno strumento per sistemare i conti con l’orrore con tutta la tenerezza della quale sono capace. Sembra una contraddizione, ma non lo è.
Infine, sulla sua poetica
“Ciò che posso dire riguardo la mia poesia è che se scrivo è per il mio bisogno di cercare parole ai sentimenti che sveglia in me la vita e la sua quotidianità, lo stupore che scopro nelle leggi della natura e dell’essere umano. Niente di ciò che scrivo è senza il motore dei miei sentimenti”.
A seguire una piccola scelta di poesie di Carmen Yanez, con l’augurio che non solo vi siano gradite, ma che vi spingano a continuare a leggerne altre.
Silenzio
Quando si negano le parole
e non danza il verbo
sul polline della terra,
questo è il silenzio.
Come se la morte
intrappolasse i suoni
nella sua oscura confraternita.
Allora sono solita chiamarlo
e condividere i suoi muti cenni di trincea.
Sono la convitata di pietra
nel suo taciturno territorio
e lì faccio nidi di parole
in cui depongo le uova.
da Paesaggio di luna fredda (Guanda, 1998), trad. it. Roberta Bovaia
Goteborg
Una città da darti, amore,
qui dove rabbrividisce il tuo nome
sulle mie labbra.
Una città specchio del mio volto,
dove tutto parte dalle mie mani,
i tram, i canali, i gerani.
Dove non rimane nulla da percorrere, palpare, costruire.
Dove tutto
ho messo a soqquadro
cercandoti.
da Paesaggio di luna fredda (Guanda, 1998), trad. it. Roberta Bovaia
.
A tu per tu
I nostri universi
si potrebbero toccare.
Invece scelgo la tua bocca
come punto di riferimento
come
per incendiare il mio mondo
a poco a poco.
Altrimenti
Esploderemmo.
da Paesaggio di luna fredda (Guanda, 1998), trad. it. Roberta Bovaia
Certezze
Ci sei;
i gerani, le azalee,
la raccolta dei frutti
dell’estate del tuo amore
mi dicono dolcemente il tuo nome.
Ci sei;
i tuoi passi,
la scala che scricchiola deliziosa,
il tuo silenzio rumoroso
lassù in soffitta.
I fantasmi che ti spiano
le parole che incontrano le tue parole,
il tuo desiderio,
storie che entrano nella tua luce.
La tua rabbia,
una tempesta che scema con la sera calma.
Così scrivi per i giusti, degli stolti;
così la tua voce corre sui cornicioni.
mi sei, mi esisti
ed è ora che devo
proteggerti lo sguardo.
E’ il tempo plurale
nostro,
il pretesto per parlare ancora d’amore.
E’ la sera sulla pelle
dorata di sole e anni.
E’ dolcezza che scorre ancora e non so
fino a quando nelle vene
di questo nostro piccolo mondo.
da Latitudine dei sogni (Guanda, 2013), trad. it. Roberta Bovaia
Amare
Amare i soliti riposti
dell’attesa
amare i silenzi
e le parole che riempiono
la casa dell’amore.
Amare la sera condivisa
la pioggia sul tetto
quando il cielo cade a pezzi
di tristezza.
Anche così amare
il martellio del temporale.
Amare il mondo
dove l’altro trova il proprio delirio.
Amare con odio di mare in burrasca.
Amare. Amare
il giorno dopo e l’ora della rugiada
quando svegliano i gerani
il loro messaggio di terra e di vita.
da Latitudine dei sogni (Guanda, 2013), trad. it. Roberta Bovaia