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Il mio vuole essere un piccolo contributo per cercare di dare risposte a una domanda che una “generazione” di solito si pone quando la sua esperienza giunge al culmine: qual’è il messaggio, l'”eredità” che viene lasciata alle generazioni successive, quante delle battaglie combattute sono state comprese e assimilate come bagaglio di tutta l’organizzazione?

Il mio percorso personale passa attraverso il famoso “movimento del ’68”, vissuto come protagonista alla Sapienza di Roma nella sua fase iniziale, quella cioè meno ideologica e più “riformatrice”.

E’ però necessario, per chi non ha vissuto quel periodo, fare un vero e proprio sforzo di comprensione di quella che era la realtà politica e sociale italiana prima della rivolta studentesca, che è andata poi a confluire nelle lotte operaie che hanno consentito alle organizzazioni sindacali di radicarsi di nuovo con forza sui luoghi di lavoro.

L’Italia “pre-’68” era caratterizzata da una estrema rigidità sia politica che sociale, frutto della guerra fredda, che allora divideva il mondo in due blocchi contrapposti.

Gli anni ’60 avevano visto il nostro paese in grande trasformazione: il “boom economico” e il conseguente ampliamento e trasformazione delle città industriali del nord, che avevano visto un forte afflusso di manodopera dal meridione, finendo per costituire almeno il 40% della popolazione totale.

Mentre avveniva tutto questo, non era però cambiato l'”ordine sociale”, rimasto estremamente rigido con le precise divisioni tra la classe dirigente, un’elite, e lavoratori, a loro volta divisi nettamente in impiegati ed operai. Il tutto era poi “condito” da forme ottuse di censura sulle attività culturali: televisione, cinema, teatro ecc.

Tutto questo crolla, appunto nel giro di pochi anni, tra il ’68 e i primi anni settanta.  Anni pieni di entusiasmo e, sotto molti aspetti, inebrianti: sembrava che tutto si potesse cambiare, si potessero rovesciare le gerarchie consolidate e costruire un mondo totalmente nuovo.

In questa situazione ci fu chi ritenne giusto e necessario fare una scelta di vita: condividere fino in fondo la condizione delle classi subalterne, la classe operaia nelle città industriali, la condizione degli emarginati in città strutturalmente e socialmente più complesse come Roma.

Questa seconda fu la mia scelta: combattere le disuguaglianze sociali, a partire dal superamento dei “borghetti” (baraccopoli) per combattere l’emarginazione economica e sociale. La battaglia per la sparizione dei “borghetti” è stata, come noto, vinta, ma non certo quella contro l’emarginazione.

Militante politico, iscritto dal ’68 al Psi, prima facchino in una “carovana” (rigorosamente a giornata e “in nero”), poi alla morte di mio padre e con la necessità di un lavoro stabile, magazziniere in un supermercato ed eletto delegato sindacale, poco prima della metà degli anni ’70 ho sentito la necessità di un impegno sociale più diretto ed immediato, come quello di operare a tempo pieno nel sindacato.

La mia scelta (e la mia possibilità concreta) fu la Uilm, federazione che operava all’interno del patto unitario tra metalmeccanici, la Flm, e che allora era guidata da Giorgio Benvenuto.

Qui si potrebbe aprire un discorso molto interessante sul tipo di unità raggiunto allora in questa categoria. Ma il discorso ci porterebbe molto lontano, troppo dalla nostra esperienza sindacale di oggi.

Mi fu data, quindi, una possibilità, ma a patto di prendere la mia valigia e partire per il Nord. Da Roma prima a Torino, “capitale” dei metalmeccanici e della Uil, poi a Varese (di Bossi allora non c’era nemmeno l’ombra), dentro e “alla testa” di un movimento operaio allora non solo forte in fabbrica, ma “egemone” anche culturalmente e socialmente. Basti pensare allo strumento delle “150 ore”, che consentì dei costruire legami fortissimi con il mondo della scuola e, in particolare, con l’università, alla “costruzione” di avvocati  che esercitavano la propria professione solo nella difesa dei lavoratori, alla medicina specializzatasi nell’analisi dell’ambiente di lavoro e delle malattie che spesso ne scaturivano ecc.

Quella del sindacalista a tempo pieno era allora considerata una “missione”, non certo un impiego o una semplice “professione”, anche se oggi certamente il compito di tutela dei lavoratori comporta una sempre maggiore conoscenza e specializzazione su tutta la materia del lavoro: dai contratti alle sempre più complicate leggi che regolano i rapporti di lavoro.

Da quella mia prima esperienza è cominciato il mio “cursus honorum”, che mi ha portato, con incarichi e responsabilità crescenti, in Toscana, alla Uil nazionale e, infine, alla Uiltucs, fino a ricoprire l’attuale incarico di segreteria.

In tutto questo credo che ci sia un filo conduttore, che debba attraversare tutte le generazioni di sindacalisti: lo spirito di combattività e di vicinanza ai problemi dei lavoratori , che va conservato anche in questi nostri tempi, dominati da confusione e dalla perdita della percezione che ci sono ancora interessi collettivi da perseguire e per i quali vale ancora la pena di impegnarsi.

 

  • pubblicato sulla rivista della Uiltucs della Liguria, Partecipare, n.3, ottobre 2012

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