di Antonio Vargiu
Una ripresa di ruolo del sindacalismo confederale.
Molto importante e vale la pena di sottolinearlo: dopo un periodo in cui il mondo politico e “culturale” sembrava aver dimenticato, se non cancellato, il ruolo del sindacalismo confederale, c’è ora un grande ritorno d’attenzione nei suoi confronti.
Assai significativo è, a questo proposito, l’atteggiamento dell’attuale (secondo) governo Conte.
Non c’è solo la ripresa della prassi della consultazione e del confronto con i sindacati maggiormente rappresentativi, cioè Cgil Cisl e Uil, ma addirittura il presidente del consiglio penserebbe (anche se è tutto da verificare) di tornare ad una modalità di rapporto con i “corpi intermedi” (associazioni imprenditoriali e sindacali) quale sperimentata nel passato, chiamandoli ad essere protagonisti attraverso un nuovo “patto sociale”.
Il sindacalismo confederale non si è rilanciato, dunque, per una sua rinnovata conta interna, ma per il ruolo di tessuto connettivo, che ha, e che ora gli viene riconosciuto, tra società civile ed istituzioni.
Uno dei tanti, piccoli segni di questa rinnovata attenzione anche a livello culturale è il numero di gennaio di Italianieuropei (1), dedicato per la gran parte alle problematiche del lavoro, con particolare riferimento al rapporto tra sindacati confederali e il mondo della politica e, in particolare, le espressioni politiche della sinistra.
Molte delle analisi trattano temi già conosciuti, quali l’allentamento se non la rarefazione del rapporto tra partiti della sinistra e militanti ed iscritti alle organizzazioni sindacali, in particolare alla Cgil.
L’intervista di D’Alema al segretario generale della Cgil Landini è nel solco dell’orientamento tradizionale di questa rivista e non annuncia particolari novità, anche se, verso la fine dell’intervista affiora, nel segretario della Cgil una certa tendenza “egemonica”, soprattutto quando afferma che “un tempo la presenza nel nostro paese di tre sindacati poteva essere spiegata alla luce delle divisioni partitiche esistenti. Oggi quei partiti non ci sono più, e non ci sono quindi più ragioni di appartenenza politica che impediscono la costruzione di un sindacato unitario. Ma non è la trasformazione del quadro politico che può portare in automatico all’unità sindacale” e continua “ si può però avviare una riflessione sul fatto che la precondizione dell’unità sindacale sia la democrazia, cioè la possibilità delle persone di poter partecipare, di poterci essere, anche grazie a una legislazione di sostegno alla rappresentanza e alla contrattazione…”.
Il chè, a voler essere “malpensanti”, potrebbe essere così tradotto: la “rigenerazione” e la nuova unità del sindacalismo confederale passa anche attraverso una conta, sia pure regolata da una legislazione di sostegno, tra organizzazioni sindacali.
Certamente non si può non essere favorevoli a forme più avanzate di democrazia sindacale, ma non sarà certo solo questo l’elemento destinato a segnare la “riscossa” di Cgil Cisl e Uil (tra l’altro le regole confederali per elezioni democratiche nei luoghi di lavoro funzionano abbastanza bene in realtà di una certa dimensione, non altrettanto bene nelle unità produttive “polverizzate”, quali ad esempio quelle del terziario).
Una vera novità: gli “analisti” si accorgono che esistono in Italia tre sindacati confederali e che la Uil non è un’“aggiunta” a Cgil e Cisl!!
Abbiamo avuto il piacere di scoprirlo nell’articolo di Paolo Feltrin (2), che cerca di spiegare la forte capacità di resistenza dei tre sindacati confederali nonostante le difficoltà economiche e sociali attraversate.
Siamo di fronte ad un ragionamento originale e molto realistico sul perché Cgil Cisl e Uil hanno mantenuto una fetta ampia di consenso tra i lavoratori, diversamente da quanto accaduto nel resto dell’Europa (e del mondo).
Tre osservazioni preliminari
La prima è che la storia non ha un andamento lineare tipo “sconfitta-ripresa-vittoria”, ma ha un “cammino tortuoso”.
La seconda è che attualmente il sindacalismo confederale non ha più una forza d’attrazione presso gli ambienti intellettuali e i mass media tendono a parlarne poco e a sottovalutarlo.
La terza è che ci sarebbe una tendenza a descrivere i luoghi di lavoro in maniera “catastrofista” e a evidenziare che “tutti i lavoratori abbiano peggiorato le proprie condizioni di lavoro e che vivano l’esperienza lavorativa come dramma, sfruttamento, mancato rispetto dei diritti. Tuttavia non abbiamo alcuna evidenza empirica che questa descrizione a tinte fosche corrisponda al vero, tranne che per alcune sezioni delimitate del mondo del lavoro”.
Diciamo subito che, mentre per le prime due affermazioni non abbiamo niente in contrario da dire, sulla terza abbiamo molte riserve.
Nei settori del terziario, del commercio e dei servizi ci sono ampie aree in cui il lavoro e il suo costo è diventato l’elemento su cui scatenare una forte concorrenza al ribasso, a partire dalla diffusione dei “contratti pirata” per finire agli appalti al massimo ribasso, alla flessibilizzazione esasperata ecc.
Negli anni è stata poi nettamente smentita la previsione secondo la quale le mansioni più umili e faticose sarebbero state pagate meglio: pulizie, lavori notturni ecc., né crediamo che questa crisi da coronavirus sia destinata ad invertirne la tendenza.
Se poi andiamo a vedere un settore economico importante dal punto di vista occupazionale quale il commercio, è difficile oggi trovare una soddisfazione e una affezione al lavoro diffusa nelle centinaia di migliaia di addette/addetti alle vendita, il cui lavoro è spesso svolto in maniera ripetitiva e/o in condizione di forte stress. Un’indagine svolta sul campo da una giovane sociologa, Annalisa Dordoni, di cui abbiamo parlato nel numero 45 del nostro sito (3), né dà un piccolo esempio.
I sindacati sono nati prima dei partiti (laburisti) e continuano ad avere proprie radici (in Italia) anche dopo il declino dei loro riferimenti politici.
E’ questa la sintesi delle tesi del prof.Feltrin, espresse con originalità e superando vecchi schemi, secondo i quali in Italia contava e conta solo il sindacalismo di sinistra (Cgil) e quello cattolico (Cisl), ignorando completamente la funzione innovatrice e propositiva della Uil.
A questo proposito invitiamo gli storici del sindacalismo italiano ad approfondire la figura e il ruolo svolto da Raffaele Vanni, centrale in molte vicende dal dopoguerra in poi e che, con la sua azione, ha impedito che Cgil Cisl e Uil finissero per essere paralizzate dalle divisioni e dagli scontri interni.
Un’eredità dell’ “autunno caldo”: la centralità del contratto nazionale di lavoro.
E’ questo un elemento che non ci pare particolarmente sottolineato (anche se successivamente ne vengono messi in evidenza gli effetti positivi sull’azione del sindacato).
Con il famoso rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici del ’69 si ribalta la scena: è la contrattazione di categoria che divene centrale, insieme con il ritorno in fabbrica del sindacato che sostituisce i vecchi organismi di rappresentanza (le “commissioni interne”) con i delegati che sono una espressione diretta e controllata dai lavoratori.
Da questo momento in poi, qualunque fosse stata l’impostazione originaria delle singole confederazioni, l’articolazione categoriale sarà l’ossatura su cui si costruisce l’attività sindacale.
Non possiamo, del resto, dimenticare che, a sostegno di questa novità veramente “rivoluzionaria”, nel maggio del 1970 fu approvata la legge 300, a sancire il riconquistato diritto dei lavoratori di godere finalmente di libertà ed agibilità sindacali nei luoghi in cui prestavano la propria opera.
Un’altra svolta: il dopo sconfitta alla Fiat (ottobre 1980).
Un’altra data simbolo è l’ottobre del 1980, quando si consuma lo scontro frontale tra la Fiat e la Federazione dei lavoratori metalmeccanici: contro la minaccia di licenziamenti di massa – ne sono preannunciati 14.469– inizia un drammatico braccio di ferro che dura per 35 giorni, con picchetti agli ingressi delle fabbriche del gruppo e, in particolare, a Torino,.
La vertenza finisce con una sconfitta, provocata anche dalla mobilitazione dei quadri intermedi aziendali che porta alla famosa “marcia dei quarantamila”: finiscono i picchettaggi e si riprende il lavoro senza che fossero stati ottenuti risultati significativi. I licenziamenti vennero infatti trasformati in collocamento in Cassa integrazione a zero ore per 24 mila lavoratori (naturalmente la scelta su chi inserire nella lista venne fatta unilateralmente dalla Fiat), con possibilità di una mobilità esterna e nessuna garanzia sui livelli occupazionali finali.
Dall’analisi di questi fatti prende le mosse una divaricazione strategica tra Cgil Cisl e Uil, che caratterizzeranno -secondo l’analisi di Feltrin-
la Cgil per:
per la difesa ad oltranza della scala mobile e, successivamente, dei diritti individuali ed indisponibili di tutti i lavoratori;
la Cisl per:
l’opzione della concertazione e dello scambio politico con l’ambizione (Carniti) di fare del sindacato un soggetto politico in grado di partecipare al governo di società sempre più complesse;
la Uil per:
la proposta del sindacato dei cittadini (Giorgio Benvenuto) con l’idea di tutelare sia i lavoratori fuori dai luoghi di lavoro, sia i cittadini dovunque si trovino a vivere in condizioni di subalternità e di disagio.
Naturalmente questa schematizzazione è utile, ma anche un po’ semplicistica: in effetti gli anni dell’unità avevano messo in circolazione all’interno del sindacalismo confederale idee e culture originariamente proprie di Cgil Cisl e Uil, anche se la loro fusione non riuscì completamente (l’utopia del “crogiolo” di Trentin).
La diversificazione avvenne sui singoli temi ed episodi con schieramenti (“a due”) di volta in volta anche diversi.
Inoltre la Uil in quegli anni non è stata certo solo l’intuizione del “sindacato dei cittadini”. Basti pensare alla forte sollecitazione di una svolta complessiva del sindacato cui aveva dato impulso con la “parola d’ordine” “dalla protesta alla proposta”, che suggeriva un riposizionamento complessivo del sindacalismo confederale.
Una nuova strada: unità d’azione e rafforzamento della presenza sul territorio.
Nonostante tutto Cgil Cisl e Uil hanno trovato una propria originale strada per affrontare le difficoltà economiche e sociali che, negli anni successivi, hanno attraversato l’Italia.
Da una parte hanno contenuto sia le divergenze che i veri e propri scontri tra confederazioni entro limiti e ambiti ristretti di singole anche se importanti categorie (basti pensare a tutte le vicende contrattuali che hanno coinvolto e diviso a più riprese le Federazioni metalmeccaniche). Ma alla Federazione unitaria è subentrato almeno un patto di unità d’azione, che, per molti anni, ha retto.
Dall’altra sono riuscite a radicarsi sul territorio, sviluppando la capacità di fornire servizi di cui i lavoratori avevano sempre più bisogno: uffici vertenze, Caf, patronati ecc.
A questo va aggiunta la forza delle categorie, espressa -al di là delle divisioni- con la capacità di mantenere in vita e rinnovare i contratti nazionali (una rarità nel mondo occidentale) e a garantirsi una presenza capillare. A proposito a maggio celebriamo i 70 anni di vita dello Statuto dei lavoratori, cioè, come si disse allora, dell’ ”entrata della Costituzione sui luoghi di lavoro”.
Questo approccio ha portato al presente quadro organizzativo delle tre confederazioni, che Feltrin riporta:”…C’è da rimanere sorpresi: oggi CGIL, CISL e UIL hanno il massimo di sedi mai avute in Italia, più di 7000; un numero di stipendiati mai raggiunto prima, circa 25.000; almeno 200.000 delegati eletti nei luoghi di lavoro; un fatturato di quasi 2 miliardi l’anno; oltre 5.000.000 di pensionati iscritti; un numero di iscritti attivi più basso dell’apice di fine anni Settanta, poco più di 6.000.000, anche se in tema di tesseramento le valutazioni sono sempre articolate, per usare un’espressione diplomatica, data la natura volontaria – diciamo così – delle autocertificazioni sindacali. Molti altri sindacati in giro per il mondo ci invidiano questa tenuta organizzativa. Essa dipende in primo luogo dal “multiverso” di attività offerte, e questo vale per una qualsiasi sede sindacale nel più sperduto angolo del paese”.
- Italianieuropei, n.1, 2020.
- Paolo Feltrin, Partito e sindacato “in convergente disaccordo”, Italianieuropei, n.1 2020.
- Antonio Vargiu, La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori del commercio, Intervista ad Annalisa Dordoni, n.45, gennaio-febbraio 2019.