Print Friendly, PDF & Email

Innanzitutto chi è Franco Loi. Ebbene, nonostante scriva in dialetto milanese, è uno dei massimi poeti italiani viventi. Questa è almeno la mia opinione, ma credo di essere in buona compagnia.
Naturalmente, in articoli successivi, andremo ad esplorare il suo stile e i suoi contenuti, con una breve introduzione alla lettura delle sue opere (niente paura: c’è sempre una “traduzione” delle sue poesie in italiano!).

Per adesso andremo a conoscere alcune sue “opinioni”, molto ben fondate, sulla poesia e su cosa la distingue da altri generi letterari.

Fondamentali sono alcuni suoi articoli apparsi questa estate sulle pagine domenicali del Sole24ore, dedicate alla cultura (1).

Ci sono un’infinità di equivoci intorno a cosa sia la poesia. Una volta, circolava l’idea – anche tra i letterati – che l’andare a capo, fare una riga corta, fosse fare una poesia.

Altra idea era quella della rima: parole che, in qualche modo, finiscono con un’assonanza fanno una poesia, oppure si pensava bastasse contare le sillabe, o altri fattori tecnici. Se la poesia fosse questo, sarebbe sufficiente fare una cattedra di poesia: si sfornerebbero poeti allo stesso modo in cui si sfornano ingegneri.

Non è così. Anzi, la maggior parte dei poeti non ha frequentato le università e, soprattutto, le facoltà di Lettere. È interessante: pensiamo, ad esempio, a Montale, che era ragioniere, a Quasimodo, che era geometra.

Questo la dice lunga su come non sia possibile “insegnare” la poesia, e come la poesia – al contrario – tema molto il soverchio del troppo, l’eccesso di erudizione, «lo spavento della letteratura». Quante volte ho sentito dire «È già stato detto tutto».

La poesia è qualcos’altro. È un movimento che attraversa l’uomo: scrivo movimento perché «emozione» nasce da «moto ». Non sempre i moti attraversano la coscienza, a volte qualcosa avviene dentro noi e lo riceviamo attraverso ì sensi, o il «cuore», la percezione che più strettamente chiamiamo emozione.

Un mio amico ha detto una bellissima cosa. In un’intervista gli ho chiesto cosa fosse l’amore e ha risposto «L’amore è un movimento. L’odio è il suo contrario, perché è un ostacolo». Questo è importante, perché vuol dire che il movimento, soprattutto quando è d’amore, lo proviamo tutti; tutti – chi più, chi meno – in un certo momento abbiamo bisogno di esprimere questi moti che ci attraversano, e sentiamo questa necessità in modo tanto più forte quanto più questi moti sono inconsci, perché quando riusciamo a farli arrivare alla coscienza e a tradurli attraverso la mente in qualcosa di pratico o di razionale, ecco che allora ci acquietiamo dentro la spiegazione che riusciamo a dare.

Invece, quando questo moto non arriva alla coscienza, ci inquieta. Non sappiamo perché. Così l’innamoramento è il momento che ci fa vedere più chiaramente. Però ci sono tante cose nel movimento d’amore, non c’è solo l’oggetto o il soggetto del nostro amore. Quando ci innamoriamo portiamo dentro di noi le nostre debolezze, i bisogni di cui non siamo consapevoli, molti elementi che, a volte, non hanno niente a che vedere con l’oggetto d’amore.

Tuttavia, in quel momento, tutti sentiamo il bisogno di scrivere, di dire… Rispetto alle considerazioni precedenti abbiamo già fatto un salto, perché esprimersi ed essere sono due cose diverse. C’è il bisogno di esprimersi da una parte, ma questo presuppone un essere. Qual è quell’essere che vuole esprimersi? Non è il nostro io consapevole, ovvero quello che siamo abituati a considerare il nostro io (ci facciamo un’immagine di noi in rapporto agli altri e a noi stessi e la chiamiamo «io»).

Freud diceva che l’io è un incidente, che è l’accumularsi abituale di un punto di riferimento dentro di noi e questo punto di riferimento lo scegliamo fra tanti, ma non è detto che sia quello «l’io». Diciamo che l’io sottostà a un essere. Chi siamo noi? Quando si è bambini siamo molto vicini al nostro essere; il bambino agisce, tanto più è piccolo, non con una forte nozione del proprio io, ma del proprio essere. In questo senso la Cvetaeva diceva che «qualcosa dentro di noi vuole disperatamente essere ». Perché dando credito al nostro io finiamo per soffocare il nostro essere, lo mettiamo da parte e facciamo sempre riferimento a questo punto significativo che è poi il nostro modo abituale di fare. Questo lo capiamo quando entriamo davvero in un rapporto profondo con noi stessi, quando le abitudini vengono a mancare, arrivano dolori troppo profondi, viene sconvolto il nostro modo usuale di guardarci e di vederci…

La poesia è quel moto che nasce dal nostro essere. Il mezzo che usa è la parola. Facciamo qui un altro passo, analizziamo la tecnica. La prima tecnica che usiamo è la lingua (se fosse pittura, il mezzo sarebbero i colori, che non sono sette come ci dicono, ma sono infiniti); è nel rapporto dell’essere con il mezzo espressivo che nasce “lo specifico” del mezzo.

I grandi poeti, che hanno anche scritto e riflettuto sulla poesia, dicono tutti una cosa: fondamentale è lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione. Il poeta non sa quello che scrive. Non bisogna credere di dover imparare a scrivere ciò che si pensa, o quello che la propria coscienza pensa. Ci si deve solo esprimere in relazione al proprio essere e non al proprio abituale io cosciente. Quando il poeta si esprime è il suo essere inconscio, attraverso il mezzo, che rivela ciò che lui non sa,che non cade sotto la sua padronanza, gli rivela quante funzioni si accumulano dentro l’essere senza che ne abbia coscienza. Ecco allora perché si ha lo stupore dell’artista davanti al proprio fare”.

Bene, per questa volta, abbiamo molto materiale e molti concetti su cui riflettere.

Possiamo iniziare, una volta fatti propri, ad elaborarli personalmente e ad abbozzare una prima risposta alla domanda: siamo tutti poeti?

Oltre all’indispensabile e doverosa tecnica, che non si impara in cinque minuti, siamo pronti a scavare nel profondo del nostro essere per comunicarlo con gli strumenti della poesia?

A.V.

  1. Franco Loi, 10 agosto 2015, Il Sole 24 ore.

Share This: