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di Antonio Vargiu 

Abbiamo scelto due liriche di poeti importanti, oramai diventati dei classici, dedicate alla stagione dell’estate per mettere in evidenza due modi opposti di affrontare non solo quello che generalmente viene considerato uno  tra i più bei periodi dell’anno ma -metaforicamente- anche la vita.

I poli opposti sono quello del “vitalismo” e dell’ottimismo proprio di Neruda e quello del pessimismo totale e del non senso della vita, che caratterizzano gli scritti di Montale.

Eppure i due poeti sono quasi contemporanei, hanno vissuto periodi travagliati, sono passati attraverso guerre e conflitti.

Qui però si apre una divaricazione di esperienze: Neruda, durante la seconda guerra mondiale, vive in Sud America e non viene coinvolto personalmente. Montale, invece, che aveva combattuto al fronte la prima guerra mondiale vive in Italia e subirà – da antifascista dichiarato- tutte le vicissitudini della guerra “sul suolo patrio”.

Neruda, invece, continuò ad essere perseguitato, soprattutto dopo la guerra, dai vari regimi autoritari e fascisti susseguitisi in Cile, da Gonzalez Videla a Pinochet.

Comunque tutti e due gli artisti furono apprezzati come grandi poeti e rappresentativi delle loro culture nazionali, tanto che a breve distanza di tempo furono insigniti del premio Nobel per la letteratura, Neruda nel 1971 e Montale nel 1975.

Ma torniamo alla loro produzione poetica: per rimarcare le differenti visioni della vita prendiamo in esame due liriche dedicate all’estate.

Partiamo da Pablo Neruda. Intanto una curiosità: questa lunga poesia raramente viene presentata nella sua interezza sui vari siti internet. Forse si vuole seguire più che il “gusto” l’impazienza attuale delle nuove generazioni “digitali”. Ma così si mutila -direi in maniera “non nobile” (per non dire peggio) l’espressione dell’autore.

PABLO NERUDA “Ode all’estate” (1954) (1)

Estate, violino rosso,
nuvola chiara,
un ronzio
di catena montuosa
o di cicala
ti precede,
il cielo
a volta,
liscio, luccicante come
un occhio,
e basso il suo sguardo,
estate,
pesce del cielo
infinito,
elitra lusinghiera,
pigro
letargo
pancino
di ape,
sole indiavolato,
sole terribile e paterno,
sudato
come un bue lavorando,
sole secco
nella testa
come un inaspettato
garrotoazo,
sole della sete
camminando
per la sabbia,
estate,
mare deserto,
il minatore
di zolfo
si riempie
si riempie
di sudore giallo,
l’aviatore
percorre
raggio a raggio
il sole celeste,
sudore
nero
scivola
dalla fronte
agli occhi
nella miniera
di Lota,
il minatore
si stropiccia
la fronte
nera,
ardono
le sementi,
scricchiola
il grano,
insetti
azzurri
cercano
ombra,
toccano
la freschezza,
sommergono
la testa
in un diamante.

Oh estate
abbondante,
carro
di mele
mature,
bocca
di fragola
in mezzo al verde, labbra
di susina selvatica,
strade
di morbida polvere
sopra la polvere,
mezzogiorno,
tamburo
di rame rosso,
e a sera
riposa
il fuoco,
la brezza
fa ballare
il trifoglio, entra
nell’officina deserta;
sale
una stella
fresca
verso il cielo
cupo,
crepita
senza bruciare
la notte
dell’estate

 

 

Ardono i seminati,
scricchiola il grano,
insetti azzurri cercano ombra,
toccano il fresco.
E a sera
salgono mille stelle fresche
verso il cielo cupo.
Son lucciole vagabonde.
crepita senza bruciare
la notte dell’estate.

L’ultima parte, quella in azzurro, è quella che appare più frequentemente nelle varie “antologie” internet.

Impressioni dopo una prima lettura: una infinita variazione delle diverse forme in cui si manifesta l’”esplosione” della vita. Terra e cielo si fondono nelle varie manifestazioni della gioia di vivere. I versi brevi, brevissimi, poi più lunghi sono fuochi artificiali scoppiettanti.

Direi che siamo in un componimento che, a mio parere, potrebbe essere catalogato come un moderno componimento barocco, in cui predomina la dinamicità e lo stupore per la vita.

 

Vediamo ora invece come si esprime Eugenio Montale in una sua celebre “poesia estiva”

Eugenio Montale Meriggiare pallido e assorto (1925)(2)

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’e’ tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

 

Non sono d’accordo con chi dice che qui Montale si allontana da quella tradizione occidentale che utilizza la natura come “specchio dello stato d’animo del soggetto” (vedi a questo proposito il commento alla mia poesia I grilli presente sul numero 26, dicembre 2016 di questo sito).

Sicuramente qui ci si propone una visione della natura (e dell’uomo) antiidillica: il calore è opprimente, i suoni sono striduli e le azioni degli animali un continuare a fare senza domandarsi del perché alla fine c’è sempre una “muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Siamo quindi tutti relegati ad un ruolo passivo, dentro a una natura che non capiamo e che non condividiamo, ma a cui non possiamo sottrarci.

Siamo molto vicini ad una visione di “pessimismo cosmico”, presente oggi anche in molta parte delle nuove generazioni.

Giusto essere messi in guardia da un facile “irenismo”, ma giusto anche che questi ammonimenti sul rischio della vacuità della nostra vita ci siano da sprone per una presenza attiva e positiva nelle problematiche attuali della nostra società.

 

 

  • Abbiamo ripreso la versione di Salvatore Galeone, 10 luglio 2024 dal sito Libreriamo;
  • Dalla raccolta Ossi di seppia.

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