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 A COLLOQUIO CON LA SOCIOLOGA ANNALISA DORDONI

di Antonio Vargiu

 

Dopo una pausa, che faceva temere un blocco dell’iniziativa legislativa in materia, è invece ripreso l’iter -e le polemiche- relativo ad un disegno di legge sulla limitazione degli orari commerciali domenicali e festivi.

Infatti, dopo le diverse proposte che erano state presentate in ordine sparso dai vari partiti lo scorso autunno, un nuovo via è stato dato dalla presentazione alla Camera, avvenuta a fine gennaio e, precisamente, alla commissione attività produttive, di un testo unificato, frutto di un’intesa tra i due partiti di governo, la lega e il movimento 5 stelle. 

Non entreremo qui nel merito della nuova proposta, che ovviamente ci riserviamo di esaminare nel dettaglio nei prossimi numeri.

Ci interessa, invece, sottolineare come questa ripresa di iniziativa legislativa ha riaperto polemiche, incentrate soprattutto su previsioni economiche di calo di fatturati commerciali con conseguenti licenziamenti o, comunque, con riduzione di organici. Si parla inoltre di decisioni destinate a favorire ulteriormente le multinazionali della vendita on line (Amazon in testa) e di proteste di qualche associazione di consumatori, private del proprio diritto (?) alla spesa domenicale.

Di una cosa, invece, non si parla mai sui mass media: della condizione, cioè, delle lavoratrici e dei lavoratori del commercio, condannati a turni sempre più stressanti, perchè -attualmente- le grandi aziende del settore hanno un solo obiettivo: abbattere il costo del lavoro. Strumento principale (ma non unico): “stressare” il numero degli addetti.

Per questo motivo riteniamo molto importante ripubblicare sul nostro sito un’intervista alla sociologa Annalisa Dordoni in merito ad una sua ricerca relativa alla condizione del lavoro in alcuni settori commerciali, che riteniamo assai significativa. Questa intervista è già apparsa sulla rivista della Uiltucs “Partecipazione” (1).

 

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“Lavoro di vendita e liberalizzazione dei consumi”: una ricerca sulla deregolamentazione degli orari di apertura della sociologa Annalisa Dordoni.

intervista a cura di Antonio Vargiu

Cara Annalisa, ti abbiamo conosciuto in occasione del tuo intervento al congresso regionale Uiltucs della Lombardia, nel corso del quale hai illustrato una tua importante ricerca sugli orari di apertura dei negozi a Londra e a Milano.

Il tema è di grande attualità, anche perché la maggioranza delle forze politiche italiane oggi in Parlamento sembra abbia l’intenzione di procedere a correzioni della attuale, totale liberalizzazione degli orari delle aperture commerciali.

Anche per questi motivi, la tua ricerca è straordinariamente interessante, perché consente di mettere alcuni punti fermi.

 

Il quadro normativo che regola le aperture commerciali in Italia e in Inghilterra
In Italia In Inghilterra
Decreto “Salva Italia”, 6 dicembre 2011 n.201, del governo Monti, attuato nel 2012, che porta a compimento la prima liberalizzazione, introdotta dall’art. 35, comma 6 del D.L. n. 98/2011, in ambito di orari e giorni di apertura degli esercizi commerciali, inizialmente prevista esclusivamente per le “città d’arte e località turistiche”. Con questo decreto la liberalizzazione degli orari commerciali è totale. Tale deregolamentazione dei consumi si traduce nella possibilità di apertura delle attività commerciali 7 giorni su 7 e 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, situazione che Annalisa Dordoni definisce come “società dei servizi 24/7”. I consumi però sono legati al lavoro di vendita: questo si traduce in deregolamentazione dei tempi di lavoro.  Vi è una liberalizzazione degli orari gli esercizi commerciali ma con deroghe e limitazioni rispetto alla metratura dell’esercizio. La normativa inoltre prevede una piena libertà di scelta, per le lavoratrici e i lavoratori, di lavorare o meno la domenica: unica condizione quella di inviare un preavviso almeno 3 mesi prima. Nella legge nazionale è sottolineato il fatto che i datori non possono mettere in atto discriminazioni verso chi sceglie di non lavorare la domenica. Inoltre, cosa molto importante, nel Regno Unito la settimana lavorativa è, in tutti i settori, di 5 giorni con 2 di riposo, e non di 6 giorni come in Italia.

 

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Ce ne puoi quindi illustrare, in sintesi, i “filoni” di indagine?

“Sono state prese in esame come contesti della ricerca due vie commerciali molto importanti con forte densità di negozi e forte affluenza sia di turisti sia di cittadini locali, una a Londra, Oxford Street, e una a Milano, la celebre Corso Buenos Aires.

Due le tipologie merceologiche prescelte: abbigliamento e telefonia/comunicazioni”.

Ci sono qualifiche professionali particolari richieste a queste “commesse/commessi”?

“I datori di lavoro assumono personale con questi requisiti: giovane età, bell’aspetto, forti capacità relazionali e attitudine a convincere all’acquisto i potenziali clienti. A Londra l’età media è di circa 26 anni , a Milano si va verso i 30 anni. Si tratta di un lavoro poco o non qualificato, un settore in cui il personale è spesso intercambiabile e sostituibile, purtroppo quindi è un settore con molto turnover del personale, cosa che si traduce in precarietà in alcune situazioni”.

Quale tipologia di contratti è quella prevalente?

“Nel contesto italiano molti e molte sono a tempo indeterminato, ma questo non porta a tranquillizzare lavoratori e lavoratrici, a causa dell’atmosfera di forte stress che li circonda. Alcuni sono assunti a tempo determinato o tramite agenzia interinale, o con contratti a chiamata”.

Quali sono gli orari e i turni di lavoro che vengono richiesti?

“Seppur il lavoro di vendita sia influenzato da normative nazionali, sui consumi e sulle attività commerciali, siamo in presenza di due realtà molto simili. In sostanza regna la flessibilità più spinta, determinata non solo dai contratti flessibili ma anche dalla deregolamentazione dei tempi. In entrambi i contesti sono emerse problematiche relative ai turni di lavoro, al calendario comunicato con poco anticipo, alla velocità del servizio e alla fretta dei clienti, questo causa ansia e quella che ho chiamato alienazione del proprio tempo, data dalla flessibilità temporale (dei tempi di lavoro, che condizionano i tempi di vita) e dalla richiesta di immediatezza da parte di aziende e clienti”. 

 

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Tutto questo porta ad una grande insicurezza.

“Si. È emersa dalla ricerca una condizione di ansia, e soprattutto di difficoltà nel progettare e pianificare il proprio futuro, dovuta non solo alla tipologia di contratto con cui si è assunti (a tempo indeterminato o atipico), ma dalla flessibilità temporale. Vi è inoltre una generale paura di perdere il posto di lavoro, determinata dalla situazione economica, soprattutto in Italia.

In tutto questo c’è una grande solitudine dei lavoratori. In Inghilterra, dove sono molto più giovani, l‘adesione a un sindacato non viene presa neppure in considerazione. In Italia la spinta ad organizzarsi e ad iscriversi vede come protagoniste solo le commesse e i commessi con più di 35 anni. Spesso si attua un fenomeno che chiamo di intrappolamento: se si inizia questo lavoro da giovani non si riesce a progettare il futuro e ci si ritrova a 35 o 40 anni ancora nello stesso posto, quasi senza rendersene conto. La flessibilità del lavoro e dei tempi di lavoro porta a questo”.  

Torna sempre la questione delle domeniche.

Sì, a Londra, ma anche in Italia, si ripropone periodicamente il problema, che vede schierati su fronti opposti la grande distribuzione e i piccoli commercianti. Nelle interviste a funzionari e delegati sindacali sia inglesi che italiani è emersa come problematica maggiore la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, soprattutto per quanto riguarda il lavoro domenicale.

Lavoratrici e lavoratori meno giovani, oltre i trent’anni e soprattutto in Italia, rivendicano il diritto ad una maggiore regolamentazione, soprattutto per quanto riguarda i giorni di riposo, per poter condividere con famiglie e collettività momenti e rituali sociali – domeniche, festività laiche come il 25 aprile e il primo maggio, feste religiose – mentre negozianti e piccoli imprenditori lamentano la difficoltà di dover tenere il passo della grande distribuzione organizzata e delle grandi catene, che hanno maggiori risorse per mantenere sempre aperti i loro punti vendita”.

In effetti il problema è questo: non si tiene assolutamente conto del parere dei lavoratori direttamente interessati. I datori di lavoro se la cavano con una battuta: è tutto a posto e “c’è la fila per lavorare la domenica”!

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Se c’è una cosa che emerge chiaramente dalla ricerca è che i tempi destrutturati di lavoro, il lavoro festivo e domenicale, e non solo la flessibilità contrattuale, determinano gravi problematiche legate alla progettualità di vita, alla transizione alla vita adulta per i più giovani e alla conciliazione vita e lavoro degli adulti, soprattutto le donne, e in particolare in Italia.

Infatti, per i/le giovani impegnate nel processo di costruzione delle proprie identità, del percorso di vita e di una propria famiglia, si tratta di una condizione molto complessa, nella quale risulta molto difficile sia costruire relazioni sociali significative sia riflettere sulle proprie scelte. Avviene così l’intrappolamento di cui parlavamo precedentemente. Per gli adulti invece, e soprattutto donne in Italia, dove l’età delle addette come dicevamo è più alta, la flessibilità temporale si scontra con gli impegni familiari e con il desiderio di passare il tempo con i propri figli, ad esempio, la domenica e nelle feste. Dal mio punto di vista, è importante chiederci a cosa possiamo rinunciare noi clienti e consumatori, per far in modo che chi lavora in questo settore possa avere una vita quotidiana più felice. La mia risposta è che, detto molto semplicemente, a me costa veramente pochissimo organizzarmi e fare la spesa o gli altri acquisti dal lunedì al sabato, e fare altro nei festivi, mentre per una addetta questo può fare la differenza. Quindi mi organizzo”.

   

(1) Flessibilità, trappola globale: Italiani e inglesi a confronto. Intervista ad Annalisa Dordoni, Partecipazione n.3 2018.

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