Lo scenario mondiale -da un punto di vista economico- non è cambiato molto rispetto allo scorso anno.
Le economie occidentali sono in lenta ripresa, ad eccezione degli Stati Uniti, che pur essendo all’origine della crisi iniziata nel 2007/2008 per lo scoppio della “bolla dei prestiti subprime”, sono i primi a dare concreti segnali di crescita: sicuramente il prodotto interno lordo del 2016 avrà un incremento di oltre il 2% rispetto all’anno precedente.
Ma questa ripresa –in ogni caso- non sta portando grandi benefici alle condizioni dei lavoratori. Solo per rimanere in Italia i disoccupati sono oltre 3 milioni, circa il doppio rispetto al 2008.
I fattori mondiali alla base della crisi
1) sfruttamento dissennato della limitata “risorsa Terra” con conseguente:
a) sconvolgimento del clima, con pesanti ricadute sulle economie di tutti i paesi e sulle condizioni di vita di miliardi di uomini;
b) aumento esponenziale di conflitti sempre più sanguinosi, che colpiscono in primo luogo le popolazioni civili;
c) esodi dalle dimensioni bibliche: basti pensare alla Siria, ma non solo;
2) per effetto della crisi economico-finanziaria sono aumentate le disuguaglianze tra Stati e, al loro interno, tra classi sociali; perfino in Europa, che si definisce una Comunità, abbiamo lasciato che la condizione dei cittadini greci fosse degradata a tal punto da non consentire loro di tutelare minimamente la propria salute;
3) come affermato dalla CES (Confederazione europea dei sindacati) “negli ultimi anni, in tutti i paesi dell’Unione Europea, le retribuzioni sono rimaste indietro rispetto alla produttività, mentre il costo della vita è aumentato”; oltre a questo anche le condizioni normative hanno subito dei peggioramenti, con conseguenze pratiche rispetto alla tutela dei lavoratori.
La “crisi degli immigrati”
Le estreme difficoltà economiche che sta vivendo la parte sud del nostro pianeta sta facendo esplodere una vera e propria crisi, che sta colpendo l’Italia, che è in prima linea, e tutta l’Europa.
Ad di là di ogni strumentalizzazione e di ogni retorica, fare poco o niente in proposito è fare come gli struzzi, mettere cioè la testa sotto la sabbia. Ripetiamo, a questo proposito, alcune linee già indicate nell’editoriale dello scorso anno:
* fino a che l’ingresso in Europa sarà simile ad un fiume che rompe gli argini e l’opinione pubblica avrà la sensazione che il fenomeno sia inarrestabile, prevarrà la paura e l’estremismo di destra avrà buon gioco a farsi sostenitore delle misure più inefficienti e più inumane, conquistando spazi fino a ieri impensabili (ultimo la forte crescita dei consensi all’estremista di destra, Marine Le Pen, in Francia);
* è necessario regolarne l’entrata e sollecitare – là dove possibile- un intervento dei paesi di origine, facendosi carico di misure di aiuto per sviluppare e combattere le disastrose condizioni economiche e sociali di quei paesi; anche il governo italiano sta sostenendo questa linea a livello europeo, ma questo lo deve fare con più forza perchè finora i risultati sono stati scarsi;
* solo così potranno essere accettate misure volte non solo ad accogliere, ma anche ad integrare i nuovi immigrati; questa non è un’utopia, in passato ci siamo riusciti, come nel caso della “crisi albanese”.
Le nuova frontiere del lavoro
Ne abbiamo parlato nella nostra ultima Conferenza di organizzazione: “Lavora con noi per nuove tutele nella nuova frontiera del lavoro”, Bari, 16-17-18 marzo 2017, nel cui slogan è racchiuso tutto un programma operativo (ne parleremo diffusamente nei prossimi numeri).
Quali sono i problemi più impellenti da affrontare:
a) il primo, naturalmente, è quello del lavoro: del lavoro scarso -prima abbiamo riportato un dato importante sulla disoccupazione in Italia-, ma anche del lavoro scarsamente remunerato: oramai anche noi conosciamo i “poor workers”, lavoratrici/lavoratori che non riescono a vivere di quello che guadagnano, oltretutto fortemente “stressati” ed obbligati a prestazioni di lavoro estremamente flessibili;
b) la crescita delle disuguaglianze: la politica rincorre i cosiddetti “ceti medi”, noi aggiungeremmo “medio-ricchi”; lo vediamo dalle politiche fiscali, sempre meno correttive delle differenze di reddito, la cui forbice si sta allargando;
c) un modello sociale, che non prevede il diritto dei lavoratori di conciliare le esigenze di vita e di lavoro; lo abbiamo visto, ad esempio, in occasione della lotta dei dipendenti dell’outlet di Serravalle Scrivia: autorevoli giornalisti hanno parlato di volontà delle organizzazioni sindacali di affermare una propria identità (sic!), ma niente hanno detto sulla volontà della direzione del centro commerciale di imporre a tutti orari e giorni di apertura, compresa la Pasqua, senza mostrarsi in nessun modo disponibile a discuterne preventivamente, salvo sorprendersi per la giusta e forte reazione dei lavoratori;
d) le nuove tecnologie, che, a differenza di quanto affermato dai soliti inguaribili ottimisti, non stanno sostituendo lavoro dequalificato con uno professionalmente più ricco: vediamo l’esempio di Amazon: a pochi “softwaristi” corrispondono molti lavoratori, totalmente equiparabili ai “vecchi” operai di linea, sottoposti a ritmi esasperati, da vecchio cottimo, con l’aggravante che non sono contrattati;
e) la propensione della “politica” ad indebolire (è un eufemismo) anche dal punto di vista normativo le organizzazioni sindacali, a partire dalla loro possibilità di contrattazione sui luoghi di lavoro -ci dispiace parlare così in modo generico, ma così è stato, in questo modo hanno operato anche governi dichiaratisi di centro-sinistra, mentre niente di buono viene annunciato a proposito dai “grillini” (nonostante De Masi);
f) l’estrema difficoltà in cui si trovano le socialdemocrazie a livello mondiale, molti commentatori politici affermano che è andata strutturalmente in crisi l’idea di conciliare lavoro e capitale, in quanto oggi – con queste lunghissime crisi, non più congiunturali, ma strutturali- non ci sono margini, non c’è un surplus economico da distribuire;
ma questo non può impedire un profondo ripensamento di un modello che concili lavoro, welfare e modi di produzione della ricchezza; il cammino che ha iniziato a fare il sindacalismo più responsabile deve essere da stimolo -in parallelo e senza confusioni di ruoli- al ripensamento di un modo di essere socialdemocrazia in un mondo profondamente e rapidamente cambiato; perchè l’ideale a cui tutti devono fare riferimento è quello di stare dalla parte delle classi più sfruttate e su di loro – “la pietra scartata”- costruire una società più giusta.
Battuta la linea del “salario minimo per legge”
Ovviamente non sono considerazioni conclusive: molto sono i temi indicati, che vanno affrontati in maniera più approfondita.
Per quanto riguarda il nostro paese dobbiamo registrare un fatto, che comunque è positivo.
La linea, che saldava una parte importante di esponenti politici e dell’imprenditoria e che puntava all’ istituzione di un “salario minimo per legge”, è stata battuta: i contratti nazionali vengono rinnovati sia nell’industria che in agricoltura.
Nei nostri settori è stato rinnovato, come è noto, quello che coinvolge il maggior numero di lavoratori, quello del Terziario, Distribuzione e Servizi (Confcommercio). Le difficoltà -allo stato attuale- sono dovute alla “scissione” di Federdistribuzione, che raccoglie le grandi catene commerciali, e alla necessità di far accettare a tutte le controparti rinnovi che non consentano a nessuno “dumping contrattuali”.
Non c’è dubbio che, alla fine di questa “tornata”, si dovranno prospettare modalità innovative di contrattazione più in linea con questa fase economica, in cui un elemento tra i più significativi è la bassa inflazione.
Una nuova solidarietà tra lavoratori
L’obiettivo strategico è quello di ricostruire le ragioni di una nuova solidarietà, pur nella frammentazione e disarticolazione dei lavori, trasformati anche dalle nuove tecnologie, a partire da quelle informatiche.
Queste ultime sembrano promettere molto all’individuo, ma questo “senso di potenza” è illusorio di fronte a chi gestisce il potere. In realtà l’individuo da solo e disorganizzato è facile preda di fronte alla necessità di un lavoro e di un reddito sempre più difficili da assicurarsi.
Solo l’unione tra lavoratori -dipendenti, compresi i cosiddetti “atipici”, e anche i “solo formalmente autonomi”- può costituire una forza con cui tutti dovranno fare i conti.
Le organizzazioni sindacali – collegate tra loro a livello internazionale- sono questo strumento associativo: è la nostra esperienza quotidiana a dircelo, anche nelle difficili condizioni portate dalla crisi che stiamo vivendo.
Quelli che continuano a blaterare di casta non sanno che troveranno un muro contro cui battere la testa. Certo la condizione anche per noi è quella di continuare a farsi carico e ad interpretare le esigenze dei lavoratori e di organizzare le loro lotte, per ottenere i più cocreti e migliori risultati possibili.
Per questo ancora una volta,
Viva il 1° Maggio!