In questo articolo andiamo brevemente a “spigolare” tra le impressioni che poeti non italiani, che hanno visitato, più o meno brevemente, l’Italia o, addirittura, ci hanno vissuto, hanno messo nero su bianco e, in particolare, quelle tradotte in versi.
Ne citeremo, ovviamente, solo pochi, ma speriamo comunque di far cosa gradita nell’offrire alla lettura alcune loro poesie.
Partiamo da Rafael Alberti (El Puerto de Santa María (Andalusia –Spagna) 16 dicembre 1902 – 28 ottobre 1999 Cadice (Spagna)), di cui abbiamo già parlato nel nostro sito (vedi n. 6, febbraio 2015) e che ha vissuto l’ultima parte del suo esilio di militante antifranchista -tra il ’63 e il ’78- tra il cuore di Roma,Trastevere, e Anticoli Corrado, un paese della Sabina frequentato da molti artisti dell’epoca.
ROMA PERICOLO PER I VIANDANTI
Alma ciudad…
Cervantes
Cerca di non guardare i monumenti
viandante, se per Roma t’incammini,
apri cento occhi, le pupille affina,
schiavo soltanto dei suoi pavimenti.
Cerca di non guardar tanti portenti,
fonti, palazzi, cupole, rovine:
troverai mille morti repentine
se vuoi guardare senza accorgimenti.
Guarda a destra, a sinistra, attento al vigile,
fermati all’alt, avanza quand’è avanti!,
Vai su un filo, con l’animo sospeso.
Se vuoi vivere, mutati in colomba;
se perire, o viandante, vieni a Roma,
alma garage, alma garage immenso.
NOTTURNO
Tieni, tieni la chiave di Roma,
perché in Roma c’è una via,
nella via c’è una casa,
nella casa c’è una stanza,
nella stanza c’è un letto,
nel letto c’è una dama,
una dama innamorata,
che prende la chiave,
che lascia il letto,
che lascia la stanza,
che lascia la casa,
che va per la via,
che prende una spada,
che corre di notte
e uccide chi passa,
che torna nella via,
che torna nella casa,
che sale alla stanza,
che entra nel letto,
che nasconde la chiave,
che nasconde la spada,
e Roma resta
senza gente che passa,
senza morte e senza notte,
senza chiave e senza dama.
Ovviamente non si può dimenticare Pablo Neruda (Parral (Cile) 12 luglio 1904 – 23 settembre 1973 Santiago del Cile) e, in particolare, il suo famosissimo soggiorno a Capri.
Partiamo da una citazione dalla raccolta “Le uve e il vento”:
I frutti
Dolci olive verdi di Frascati
come puri capezzoli,
fresche come gocce di oceano (…)
Quel giorno l’oliva,
il vino nuovo,
la canzone,
la canzone del mio amico,
il mio amore lontano,
la terra bagnata, tutto così semplice,
così eterno, come il grano di frumento,
lì a Frascati
i muri perforati dalla morte,
gli occhi della guerra alle finestre,
però la pace mi ricercava
con il suo sapore di aceto e di vino,
mentre tutto era semplice
come il popolo
che mi donava,
il suo tesoro verde:
le piccole olive, freschezza, sapore puro,
misura deliziosa,
capezzolo del giorno azzurro,
amor terrestre.
E, poi, Capri, dove fu ospitato tra l’inverno del ’52 e la primavera del ’53, quando lui, militante comunista, fu costretto a fuggire dal Cile del dittatore Videla:
Da “Chioma di Capri”
Vi sbarcai in inverno.
La veste di zaffiro
custodiva ai suoi piedi:
e nuda sorgeva in vapori
di cattedrale marina.
… Sulla riva di uccelli immobili,
in mezzo al cielo,
un grido rauco, il vento
e la schiuma indicibile.
… E dal mare, girando intorno a te,
ho fatto un anello d’acqua
che è rimasto sulle onde
a cingere le torri orgogliose
di pietra fiorita…
«Capri, regina di rocce
nel tuo vestito color giglio e amaranto
son vissuto per svolgere dolore e gioia
la vigna di grappoli abbaglianti conquistati nel mondo
il trepido tesoro d’aroma e di capelli
lampada zenitale, rosa espansa, arnia del mio pianeta…»
“Descrizione di Capri”
La vigna sulla roccia, le fenditure del muschio, i muri che intrigano
i rampicanti,i plinti di fiori e di pietra:
l’isola è la cetra che fu collocata sull’alto sonoro
e corda per corda la luce provò dal giorno remoto
la sua voce, il colore delle lettere del giorno,
e dal suo recinto fragrante volava l’aurora
abbattendo la rugiada e aprendo gli occhi d’Europa.
Infine, un recente illustre “visitatore”, Derek Walcott (nato a 3 gennaio 1930), della cui opera abbiamo già parlato nel numero 15-16, gennaio-febbraio 2016.
photographed by Bert Nienhuis
Mantova
Mantegna alle pareti, il Mincio che forma stagni fuori porta,
nuvole tatuate sul petto azzurro,
Mantova galleggia nella luce-colomba del tardo pomeriggio
ventidue anni fa.
La pioggia taglia la scena con i suoi schiaffi bianchi.
Ricordo un sogno che feci una volta a Mantova,
tutti i presenti in abito da cerimonia,
un refettorio,
coppe e tovaglie di lino bianco.
A capotavola, vicino a me, ammucchiati su un vassoio di bronzo
come quaglie, tutti ossicini del desiderio e zampe delicate,
i bambini arrosto venivano serviti
“Deve provare le cosce”,
mi diceva il padrone di casa, ancora con i guanti.
“Deve provare le cosce”.
Metà del cielo colmo di pioggia, metà no,
canne spinte dall’acqua a restare immobili,
il fiume che scende in piena ma senza tracimare,
tutto capovolto,
il cielo a riposo sotto i piedi.
Parole, ma chi si ricorda?
Che parole sanno il cielo, le nuvole?
Sulla parete della residenza estiva,
dove lo lasciò Giulio Romano,
il leone beve sulla sponda del fiume, e gli alberi accudiscono.
Per vari motivi, anche personali, ci piace qui riportare una poesia dedicata alla storia e ai paesaggi – terra e mare- delle Marche:
«Sono stupefatto dai girasoli che roteano
negli enormi prati verdi sopra il mare indaco,
sbalordito dal loro aureo silenzio, sebbene cantino
con l’impercettibile brusio degli orologi sopra Recanati.
Davvero si voltano verso il tramonto, proprio come un esercito
obbedirebbe agli ultimi ordini di un impero in declino,
ruote bloccate sullo stesso solco prima delle stelle
imbullettate e del fuoco vagante delle lucciole,
poi si afflosciano a terra con lievi tonfi come meteore
esauste? Nella nostra vita altrove, i girasoli
crescono solitari, ma in questa regione costiera
puoi trovare interi campi del loro potere terreno
steso come il mantello di un principe rinascimentale,
le loro insegne avvizziranno, i loro elmi d’oro
riempiranno il vuoto».