1. Intendiamoci: non ci vuole essere un particolare accento polemico nella domanda posta nel titolo.
Ma troppo spesso si ha l’impressione che si parli di concertazione senza conoscere bene il significato di questa parola. E’bene chiarire che in Italia ha avuto una sua storia, che riteniamo importante e significativa e che ascriviamo alle cose positive realizzate in questo paese.
2. Partiamo, dunque, dalla sua definizione e consultiamo, quindi, “i sacri testi”.
La Treccani definisce la concertazione come un “metodo di gestione delle politiche
del lavoro e delle relazioni sindacali, che si caratterizza per la ricerca costante, da parte del governo, del confronto con le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e del loro consenso preventivo sulle decisioni politiche ed economiche che devono essere adottate”.
3. Ovviamente questo metodo non è stato fine a sé stesso, ma è servito per affrontare momenti particolarmente critici. Il primo rilevante esempio lo si ebbe nei primi anni ’80, quando si pose la questione della gestione della crisi economica in una fase di forte spinta inflattiva. Il governo Fanfani accetta di coinvolgere non solo le forze politiche di maggioranza, ma anche le forze sociali, associazioni imprenditoriali e sindacali. Viene sottoscritto così, il 22 gennaio 1983, il cosiddetto protocollo (o “lodo”) Scotti (dal nome del ministro del Lavoro pro tempore), che chiude un lungo periodo di scontro sociale tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. L’accordo tripartito era composto di 14 punti e di una serie di allegati.
4. Il “lodo Scotti”.
Nella sostanza l’obiettivo fondamentale era costituito dal contenimento dei tassi inflattivi fissati al 13% per il 1983 e al 10% per il 1984. I tasti sui quali agire erano fisco, assegni familiari, assistenza sanitaria, tariffe e prezzi amministrati, scala mobile, orari di lavoro, rinnovi contrattuali, mercato del lavoro, cassa integrazione, fiscalizzazione degli oneri sociali.Ad esempio il punto 1 del protocollo prevedeva la neutralizzazione del fiscal-drag per l’83, nuove detrazioni a vantaggio delle famiglie monoreddito e un aumento delle “spese di produzione” a vantaggio dei redditi più bassi; il punto 2 istituiva un assegno integrativo degli assegni familiari di misura decrescente con il crescere del reddito. Il punto 3 confermava la fiscalizzazione degli oneri sociali (per circa 8.500 miliardi) con un sostegno aggiuntivo per le imprese del Sud. Per tutto l’83 il governo si impegnava a mantenere entro il 13 per cento l’incremento medio ponderato delle tariffe, dei prezzi amministrati e sorvegliati.
Venivano alleggeriti i nuovi tickets per le medicine e gli accertamenti diagnostici.
Di particolare rilievo, al punto 7 del protocollo, la desensibilizzazione del 15% della scala mobile, stabilendo a 6.800 lire il nuovo punto unico di contingenza per il settore pubblico e privato (l’ambigua clausola sui decimali di punto provocherà più tardi forti polemiche e finirà per dividere i sindacati). L’altro punto-chiave riguardava la determinazione delle misure massime degli aumenti retributivi per
i rinnovi contrattuali (triennali) dell’ industria (25 mila nell’83, 35 mila nell’84, 40 mila nell’85). In vista di una riforma del mercato del lavoro, l’ accordo dava alle aziende, in via sperimentale per l’83, la facoltà di assumere per chiamata nominativa giovani con contratti di formazione-lavoro. Venivano, infine, previste norme anti-assenteismo, ma nello stesso tempo una riduzione degli orari di
lavoro (20 ore l’anno nell’84 e altre 20 nell’85).
5. Il decreto di San Valentino e la rottura con la Cgil.
Ma questo clima di “concordia politica e sociale” non resse a lungo, anche perché nel frattempo a presidente del consiglio fu eletto, per la prima volta in Italia, un socialista, Bettino Craxi.
“Strano” ma vero, questo non favorì una maggiore coesione sociale per affrontare i seri problemi economici che il paese continuava ad attraversare. Anzi fu quello il momento in cui lo “scontro a sinistra” Craxi-Berlinguer si acuì al massimo livello.Il governo, agli inizi dell’84, propose l’adozione di un meccanismo, sostenuto dall’economista Ezio Tarantelli, che rideterminava, abbassandone il valore, i punti di scala mobile. L’obiettivo era non più quello di difendere il salario nominale, ma quello reale dei lavoratori.“Dopo un lungo negoziato –rievoca l’agenzia Asca- si arrivo’ ad un protocollo in cui il governo prometteva il blocco di prezzi e tariffe per 2 mesi, la sospensione degli scatti dell’equo canone per tutto il 1984 e la restituzione del fiscal drag dall’anno successivo. A fronte di cio’ si richiedeva appunto il taglio di alcuni
punti di scala mobile. Ma tra le sigle sindacali non ci fu accordo ed il governo allora varo’ un decreto in cui stabiliva, unilateralmente, il taglio di 4 punti di contingenza. La conseguenza fu la fine della federazione unitaria, con l’approdo al referendum del 9 giugno del 1985 in cui vinsero i ”no” all’abolizione dell’accordo con il 54,3%”. Ed ecco come descrive quei momenti uno dei protagonisti, Giorgio Benvenuto, allora segretario generale della Uil:
“La reazione del Pci all’accordo di San Valentino fu furibonda. La Cgil venne scavalcata. In molte fabbriche furono organizzati direttamente dagli attivisti comunisti scioperi e manifestazioni. La Uil, la Cisl, i socialisti della Cgil resistettero. Rafforzarono il consenso tra i lavoratori e riuscirono a coinvolgere positivamente anche l’opinione pubblica. Il dialogo con la maggioranza della Cgil non venne mai meno, così come si mantennero aperti tutti i canali più o meno diplomatici con il Pci. Lo stesso atteggiamento ebbe Craxi.Il decreto legge che inizialmente prevedeva una predeterminazione per un anno della scala mobile venne unilateralmente modificato dal governo con il consenso della Uil e della Cisl, limitando l’effetto al solo 1984. Era un modo per consentire a tutta la Cgil di rientrare in gioco. Lama e Del Turco cercarono di cogliere l’occasione per riaprire il dialogo con il governo. Berlinguer si mostrò irremovibile sia nelle riunioni ufficiali, sia in occasione di molti incontri riservati. Il momento più difficile fu lo svolgimento della manifestazione di protesta del 24 marzo 1984 voluta dal Pci (non venne infatti promossa dalla Cgil, Lama non volle la proclamazione di uno sciopero generale). Fu organizzata nella giornata di sabato dagli autoconvocati (secondo i vecchi schemi stalinisti parlarono anche degli iscritti alla Uil, alla Cisl, dei socialisti della Cgil) con l’aiuto ed il sostegno della potente macchina organizzativa del Pci. In una piazza colma all’inverosimile (più di un milione di persone) Lama fece un discorso prudente. Io e Carniti conoscemmo il testo in anticipo. Lama disse tre no: no allo sciopero generale, no all’apertura indiscriminata di vertenze aziendali per il recupero dei tre punti di contingenza, no all’ossessione per il ritiro del decreto”.
6. Gli anni ’90: l’accordo del 31 luglio 1992.
E’ con gli accordi dei primi anni ’90 che la “concertazione a tre” (governo. Imprenditori e sindacati) diviene a tutti gli effetti il nuovo perno delle relazioni industriali italiane. Al centro del confronto c’è ancora una volta il costo del lavoro, rispetto al quale si siglano due accordi interconfederali – il 6 luglio 1990 e il 10 dicembre 1991 – con cui la scala mobile esce definitivamente di scena. ll Governo, indebolito dall’operazione “mani pulite”, invita le parti sociali ad aprire una trattativa a tutto campo “per la ristrutturazione del salario e del sistema contrattuale”. Ciò avviene in due tempi. Il primo è l’accordo del 31 luglio 1992, che registra, però, un nuovo e drammatico scontro tra le organizzazioni sindacali confederali e sancisce l’abbandono definitivo della scala mobile, invero disdettata –l’anno prima– da Confindustria; non ne predispone un meccanismo sostitutivo, rinviandone la ricerca a un negoziato successivo e blocca la contrattazione articolata. Nello stesso tempo il governo conferma l’obiettivo del “mantenimento del valore reale delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici”. Le parti sociali prendono atto delle dichiarazioni del Governo e accettano “di ricondurre l’inflazione al 2% a fine 1994”.
Conseguentemente “al fine della gestione delle dinamiche salariali per il 1992 ed il 1993, le parti concordano sui seguenti punti:
- In riferimento all’accordo del 10 dicembre 1991, la definitiva presa d’atto dell’intervenuta cessazione del sistema di indicizzazione dei salari…;
- Erogazione di una somma forfettaria a titolo di Elemento Distinto dalla Retribuzione, di lire 20.000 mensili per 13 mensilità, a partire dal mese di Gennaio 1993, a copertura dell’intero periodo 1992-93, che resterà allo stesso titolo acquisita per il futuro nella retribuzione.
- Adesione all’invito del Presidente del Consiglio a non procedere, durante il medesimo periodo, a erogazioni unilaterali collettive e ad altre ad esse assimilabili nonché a negoziati a livello d’impresa… Il Governo assume coerentemente l’impegno di non proporre particolari erogazioni a dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni non convenute nell’ambito di accordi di comparto.Il Governo e le parti sociali …ritengono che il negoziato sulla revisione degli assetti contrattuali a regime e sulla riforma del salario possa concludersi… entro il prossimo 15 settembre. Il negoziato si svolgerà intorno ai seguenti principi guida…:
- Previsione di livelli contrattuali non sovrapposti e distinti…;
- Previsione di una parziale difesa del potere d’acquisto dei salari per i tempi di prolungata discontinuità contrattuale, che valga anche come incentivo al normale svolgimento delle trattative. Il Governo svolgerà un ruolo attivo al fine di portare le parti alla positiva conclusione del negoziato”.
Nel frattempo interverrà su prezzi e tariffe, da rendere coerenti con l’obiettivo di inflazione programmata, con una adeguata politica fiscale e retributiva e con interventi sul mercato del lavoro. L’accordo, raggiunto alla vigilia della chiusura delle fabbriche, porta la firma anche del segretario CGIL Bruno Trentin, consapevole di non avere la maggioranza del direttivo della sua organizzazione, che nella notte, infatti, vota a maggioranza contro l’intesa. Trentin dà le dimissioni dal suo incarico, che però vengono respinte dal direttivo (1).
7. Gli anni ’90: il Protocollo del 23 luglio 1993.
Questo accordo, che è stato a fondamento delle relazioni sindacali in Italia per quasi 20 anni e considerato, un pò enfaticamente, quasi come la “Carta
Costituzionale delle relazioni industriali”, può essere considerato come il completamento e il consolidamento, questa volta unitario, dell’accordo dell’anno precedente.Naturalmente non si comprenderebbe il senso di questo accordo (come del resto anche degli altri atti precedentemente), se non lo si collegasse alla situazione economico-sociale che l’Italia stava vivendo. Un quadro sintetico ce lo fornisce un rapporto Cnel riferito al periodo:
” Negli anni 1987-1991 le condizioni dell’economia italiana si sono ulteriormente debilitate. Sono emersi i sintomi di una nuova e più pesante crisi.
Il mantenimento della parità monetaria, perseguito come obiettivo di risanamento, nella prospettiva dell’integrazione europea, ha sollecitato le imprese a riordinare e a strutturare le loro produzioni. Invece, per il risanamento della finanza pubblica si è proceduto con interventi poco incisivi o di rinvio…
In presenza dei tre squilibri qui segnalati (disavanzo nei conti con l’estero, dissesto nella finanza pubblica, squilibrio nell’impiego delle risorse, con eccesso dei consumi e carenza di investimenti), la crisi internazionale che esplode nel 1992 (e prosegue nel 1993-94) comporta in Italia più gravi conseguenze. La maggior parte delle attività produttive entra in una fase di recessione.
Mentre tutto il sistema monetario europeo è in tensione, la lira italiana subisce i maggiori contraccolpi speculativi: una consistente svalutazione impone di uscire dallo SME proprio nella fase di avvio dell’Unione europea. Ne deriva un temporaneo sollievo per le attività produttive, limitato peraltro alle sportazioni…
In presenza di una caduta della domanda interna, l’impulso che proviene dalla domanda estera si dimostra non completamente in grado di sostenere i livelli di attività e di occupazione. Peraltro la riduzione della inflazione conseguente all’abolizione della scala mobile e alla moratoria della contrattazione aziendale consente nuovi rapporti di cambio con innegabili ripercussioni positive sul recupero di competitività e di rendere meno gravi le conseguenze occupazionali…
Nel contesto qui brevemente delineato, il governo e le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro hanno sviluppato piena consapevolezza della necessità di assumere comportamenti orientati alla politica dei redditi e alla riforma del sistema di relazioni sindacali, tanto nel settore privato che in quello pubblico. I sindacati dei lavoratori, in particolare, hanno dimostrato un elevato senso di responsabilità politica ed istituzionale con atteggiamenti coerenti con le prospettive di risanamento dell’economia e di rilancio dell’occupazione, impegnandosi a partecipare direttamente, e a far partecipare i lavoratori, alle scelte indispensabili alla ripresa”. Gli obiettivi sono definiti chiaramente: controllare l’inflazione e risanare la finanza pubblica, considerati come presupposti necessari per il rilancio di una seria politica per l’occupazione.
Tutti gli “attori” dell’accordo assumono precisi impegni. Intanto è previsto un confronto preventivo sulle politiche macroeconomiche: in quella sede si definisce una “inflazione programmata”, posta a base di tutti i ragionamenti di bilancio: lo Stato si impegna controllare prezzi e tariffe, le associazioni imprenditoriali si impegnano a rinnovare i contratti nazionali di lavoro ed, eventualmente se ce ne sono le condizioni, i contratti aziendali, con nuove regole (e anche il governo si impegna nella sua veste di datore di lavoro), le organizzazioni sindacali accettano di impostare in maniera coerente le proprie rivendicazioni. Gli impegni sono, quindi, di tutti e non c’è nè prevaricazione nè strapotere sindacale nè veti di sorta, ma rispetto reciproco dei diversi ruoli nell’interesse generale del Paese.
In tal senso si stabiliscono le regole per una politica dei redditi fondata su un’inflazione programmata in apposite sessioni tripartite; si definiscono due livelli di contrattazione con primato gerarchico di quello nazionale; il tasso d’inflazione programmato sarà il riferimento per gli aumenti salariali, ma
comunque con la previsione di un meccanismo di recupero successivo dello scarto tra l’inflazione programmata e quella reale. Si specializzano i contenuti salariali della contrattazione decentrata; si istituiscono nuovi organismi di rappresentanza nei luoghi di lavoro (RSU), elettivi, unitari e con poteri di negoziazione decentrata (vedi accordo interconfederale Confindustria dicembre ’93 e accordo interconfederale Confcommercio 27 luglio ‘94); si auspica un intervento legislativo che possa dare a contratti che vedano il consenso della maggioranza dei lavoratori un’efficacia erga omnes; si predispongono nuovi indirizzi in tema di mercato del lavoro (formazione, lavoro interinale ecc.) (2).
Non sono imposti vincoli in materia di sciopero e se ne ha una immediata riprova in autunno, quando entrano in agitazione chimici, trasporti pubblici, o quando, un anno dopo, il 12 novembre, un’enorme manifestazione a Roma blocca la riforma non concertata delle pensioni del primo governo Berlusconi.
Ovviamente non tutto il “programma” contenuto nell’accordo del luglio ’93 è stato realizzato, non solo da un punto di vista economico, rispetto al quale abbiamo subito l’impatto negativo non solo e non tanto dell’entrata nell’euro, quanto della successiva e più recente crisi finanziaria mondiale, che ha messo in evidenza tutta la fragilità della nostra economia.Un esempio che ci riguarda più da vicino è la costituzione delle Rsu, avvenuta più estesamente nel settore industriale rispetto a quanto, invece, non è avvenuto nel terziario. Ma di questo e del perchè, più in generale, il metodo della concertazione è stato abbandonato, ne parleremo più avanti.
Note
(1) “Alla riapertura delle fabbriche, l’accordo raccoglie nelle piazze reazioni durissime, coi famosi bulloni a Trentin, a Firenze, da parte di tanti lavoratori e militanti sindacali, specie dei Cobas o autonomi, ma anche della CGIL.
All’interno del sindacato di Corso d’Italia, quasi come nel ’84, si ripropone la rottura fra la componente socialista, che ritiene l’accordo buono, la maggioranza pidiessina, che considera l’accordo brutto ma inevitabile (Cofferati), e la sinistra interna, nettamente contraria. Per quest’ultima il blocco della contrattazione articolata (di fatto per 18 mesi) è un fatto inaudito, un “accordo di resa”, che lede la stessa ragion d’essere del sindacato (Bertinotti;Patta, Cremaschi). Esso non ha alcun potere formale per imporlo a organismi aziendali che non sono una sua emanazione funzionale e diretta. S’invoca la correzione dell’accordo (Terzi), la consultazione degli iscritti (Lucchesi e Sabattini. ma anche Occhetto e Bassolino nel PDS), se non anche la convocazione di un Congresso straordinario (Grandi), ma entrambe le richieste restano disattese” .
(2) La CGIL, che a maggioranza interpreta il Protocollo come la rivincita sul ’92, approva con 105 sì (fra cui anche Sabattini e Rinaldini) e 38 no (“Essere sindacato” più pezzi dell’”area” Grandi-Lucchese).
Prima della firma Cgil,Cisl e Uil rendono note le cifre della consultazione dei lavoratori: alle assemblee hanno partecipato in 3.650.000, di questi hanno votato 1.327.290; i sì sono stati il 67,05%, i no il 26,98%, gli astenuti il 5,98%.
Salvo Leonardi, Alternative per il socialismo, n.25/2013 Gli anni dela concertazione: un excursus storico-politico.
(1- continua)