60 anni dai Trattati di Roma: non è l’ora di celebrazioni, ma di riflessione sul futuro dell’Europa, messo in discussione dalla lunga crisi, finanziaria economica e sociale.
di Antonio Vargiu
Non potevamo non chiudere questo numero di marzo senza ricordare che il 25 del mese si è compiuto il 60° anniversario dei Trattati di Roma, che hanno costituito il primo tassello per la costruzione dell’Unione Europea.
Non è stato un anniversario ricordato in maniera scontata ed univoca, né poteva esserlo vista la lunghissima crisi economica e sociale, ma anche istituzionale, esplosa nel nostro continente nel 2008.
Solo adesso si incomincia ad intravvederne la fine, ma gli squilibri che lascia e gli strascichi negativi peseranno sull’Europa per ancora molti anni.
Roma è stata percorsa da cortei e sit in, di cui i più rumorosi erano quelli che contestavano non solo gli errori e le gravi distorsioni sociali, ingigantite da politiche economiche europee totalmente insufficienti, ma anche l’idea stessa di cedere un qualsivoglia pezzo di sovranità ad un organismo sovranazionale. Il rischio è il ritorno agli egoismi nazionali, con il difetto aggiuntivo che, in questo mondo sempre più globalizzato, essi costituiscono non la soluzione, ma solo un modo per aggravare i problemi.
Detto che il tema è stato già oggetto di riflessione e di analisi sul nostro sito (vedasi ad esempio l’intervista esclusiva a Luca Visentini, segretario generale della Ces (confederazione europea dei sindacati), comparsa sul numero 24/25 2016), e che sarà nostra cura approfondire, lasciamo ai nostri lettori alcuni spunti su cui ragionare.
Un primo fatto: l’Unione Europea è una necessità. In questo “nuovo mondo” è difficile che i singoli Stati europei possano contare sul tradizionale appoggio economico e militare degli Stati Uniti. Quest’ultimi, infatti, sono alle prese con una nuova competizione a livello mondiale, quella con la Cina, e non hanno nessuna intenzione di fare da “stampella” alla “vecchia Europa”, che o si dota di una strategia complessiva o sarà destinata a subire decisioni prese da altri.
Tanto più ora con l’avvento dell’ “era Trump”.
Un secondo fatto: l’immigrazione, proveniente in questo momento soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente, pone l’esigenza non solo di gestire l’abnorme afflusso di emigranti che fuggono da situazioni di conflitto e di desertificazione economica -l’emergenza quindi-, ma anche di come impostare programmi di sostegno “in loco”, che consentano alle “elites” delle realtà coinvolte di rimanere e mettere a frutto le poche (ma non sempre) risorse dei propri paesi, in favore di tutta la popolazione e non solo di pochi oligarchi.
Terzo fatto: un singolo paese non è in grado di superare in maniera positiva questa e le ulteriori crisi che potrebbero prospettarsi in futuro.
Si dirà: e la Brexit? Ci sembra -anche per come è stata politicamente gestita- una scelta improvvisata e pericolosa, anche se va considerato che la Gran Bretagna ha alle spalle una storia imperiale e i resti del vecchio Commonwealth. Inoltre rimane una potenza finanziaria. Tutto questo ovviamente non basta e conseguenze negative, soprattutto sul piano sociale, sembrano destinate a ripercuotersi su quel paese, man mano che si realizzerà quella forma di “neo-isolazionismo” che ha scelto.
Quarto fatto: la Grecia costituisce una macchia e getta disonore su tutta l’Unione Europea.
Nessuno potrà convincerci che furbizie o politiche economiche totalmente dissennate, operate da quel paese nel passato, possano avere come “castigo” il fatto che, ad esempio, oggi, la maggioranza dei cittadini di quel paese non è in grado di tutelare la propria salute, essendo nei fatti impedita di ricorrere a quelle analisi e a quelle cure di cui noi, nonostante tutte le critiche che giustamente solleviamo, oggi possiamo godere nel nostro paese.
Non si può ridurre un membro dell’Unione a condizioni uguali a quelle di un paese del terzo mondo.
Né stiamo qui a ricordare le condizioni e le difficoltà che sta attraversando anche l’Italia, per le politiche economiche europee restrittive che hanno aggravato il ciclo negativo: lo abbiamo fatto e continueremo a farlo, anche se non sempre abbiamo fatto le cose giuste (ricordiamoci ad esempio le ambiguità a proposito delle multe per i “furbetti” delle quote latte).
Non c’è stata una manifestazione unitaria di tutti i sindacati europei, probabilmente per il clima di grande confusione che sta crescendo all’avvicinarsi di scadenze elettorali di importanti paesi europei (Germania, Francia e, il prossimo anno, l’Italia).
E’ stata, però, varata una vera e propria piattaforma dei sindacati europei aderenti alla Ces (Confederazione europea dei sindacati) “per il futuro dell’Europa”. Ecco -in estrema sintesi- gli obiettivi dichiarati:
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un’Europa che non si limiti solo a controllare i conti dei singoli bilanci nazionali, dando poi i voti come una “vecchia maestra”, ma si doti di una politica economica attiva, che preveda misure espansive e di sostegno alla domanda capaci di creare lavoro, a partire da forti investimenti pubblici per progetti transnazionali, un coordinamento delle politiche fiscali degli Stati, ispirato a criteri di equità e progressività, una tendenza all’unificazione delle tassazioni nazionali e della lotta all’evasione;
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un aumento generalizzato delle retribuzioni dei lavoratori europei, mediante il rafforzamento della contrattazione collettiva, ove essa già operi efficacemente, ripristinandola ove è stata smantellata e creando istituti e prassi di contrattazione collettiva, ove non esistano; la creazione di un Eurogruppo dei Ministri del Lavoro, oltre a quello già esistente dei Ministri dell’Economia e delle Finanze;
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la domanda interna europea deve essere potenziata per conseguire una ripresa equa; negli ultimi anni, in tutti i paesi dell’Unione europea, le retribuzioni sono rimaste indietro rispetto alla produttività, mentre il costo della vita è aumentato; è quindi giunto il momento di operare il rafforzamento delle capacità delle parti sociali e dei quadri giuridici nazionali, ove necessario, per conseguire questo risultato;
salari minimi più elevati: la convergenza verso l’alto delle retribuzioni, tra paesi (soprattutto orientali ed occidentali) e settori, deve essere considerato uno strumento fondamentale per ridurre gli squilibri macroeconomici, le disuguaglianze (ivi comprese quelle retributive di genere) e qualsiasi tipo di dumping e discriminazione salariale.