di Paolo Piacentini
Esiste una relazione tra la gestione degli spazi urbani alla luce delle trasformazione socio-economiche in corso e il tema dell’abitare nell’Appennino del terremoto?
Il primo punto di contatto è anche un punto d’arrivo a cui dovrebbe tendere una battaglia politica di lungo respiro: la città e la montagna o le cosiddette “aree interne” devono trovare una nuova alleanza proprio attraverso un rinnovato diritto all’abitare. Emancipazione della città e della montagna devono marciare di pari passo spezzando il dominio culturale della prima sulla seconda. Una cultura urbana che, soprattutto dagli anni Sessanta del Novecento, ha colonizzato il mondo rurale ivi comprese le comunità montane fortemente trasformate negli equilibri sociali, economici e demografici.
Le comunità della montagna…avevano subito l’inizio di un processo di depauperamento dei saperi e dei legami sodali che avevano caratterizzato il rapporto quotidiano con il territorio. L’ultimo devastante e quasi interminabile sciame sismico che ha messo in ginocchio l’Appennino Centrale con una sequenza iniziata il 24 agosto del 2016 e che si è ripetuta fino alle scosse di fine ottobre 2016 e del 18 gennaio 2017 ha messo drammaticamente in evidenza i limiti di un modello abitativo basato da una parte su un’edilizia poverissima (Amatrice e dintorni) e dall’altra su una quasi assoluta assenza di costruzioni davvero antisismiche, fatta eccezione per una grossa parte degli edifici privati di Norcia.
Se rimaniamo nella sfera della gestione della fase emergenziale legata all’installazione delle famose “Soluzioni abitative per l’emergenza” (Sae) ci troviamo di fronte a una sorta di drastica riduzione del diritto all’abitare se consideriamo, come è giusto che sia, la qualità dello spazio privato e di quello collettivo. Le Sae, oltre a risultare anonime e fredde sono costituite da pannellature che si stanno dimostrando non idonee ai climi appenninici mentre il posizionamento a schiera rende impossibile, anche solo immaginare, uno spazio comune all’aperto. Gli unici spazi comuni sono quelli al chiuso che nei casi migliori e nei centri più piccoli sono rappresentati da piccoli bar dove si ricrea l’atmosfera calda del piccolo borgo di montagna, mentre nei centri più importanti si è seguita la logica del centro commerciale che risulta avulsa dal contesto socio-economico di quel territorio.
Oltre alle tante falle della gestione in emergenza…c’è un elemento che è l’emblema stesso di una distanza siderale dai bisogni delle persone e quindi della qualità di abitare in quei luoghi. Nelle Sae non ci sono i camini e quindi manca quell’elemento che più di ogni altro caratterizza l’intimità delle case di montagna, soprattutto nei lunghi mesi invernali. Se alla scarsa qualità dell’abitare uniamo la completa esautorazione di un seppur minimo potere decisionale in merito al posizionamento delle Sae e ai tempi della ricostruzione allora il risultato di un disagio psicologico di una grossa fetta delle comunità locali è quasi scontato… Siamo in definitiva davanti a comunità sofferenti che in molti casi non hanno gli strumenti per superare in avanti questo momento così critico in modo collettivo.
Il terremoto, se in una prima fase ha fatto scattare una forte solidarietà esterna e tra i membri della comunità ferita con il passare del tempo sta facendo riemergere le stesse dinamiche, in alcuni casi amplificate, del pre-sisma… Una comunità che aveva perso quasi completamente la consapevolezza di appartenere, prima di tutto, alla montagna e quindi a una cultura altra da quella della città che viene destrutturata per esodi forzati, sistemazioni “provvisorie” anonime e precarie non può che caratterizzarsi per un’atomizzazione dei rapporti sociali e quindi incapace di lottare coesa per provare a riprendere in mano un’idea di futuro e contrastare le mille cose che non vanno.
A fronte di questo quadro dell’abitare in cui ognuno prova a trovare la propria soluzione individuale dovendo superare momenti di depressione e sconforto e nel caos degli interventi istituzionali, ci sono delle meravigliose isole felici che danno un fondamentale supporto quotidiano e provano a immaginare una ripartenza, ad esempio, dalla storia antica, ma oramai quasi dimenticata, della gestione collettiva delle terre…
Da queste isole…che provano a radicarsi nel territorio può nascere quel percorso di emancipazione dell’Appennino tanto atteso.